Intervista a: WINSTON SMITH
Ho conosciuto Winston Smith da giovane punk sulle copertine dei dischi dei Dead Kennedys. Questa frase penso sia comune a tutti i punk sopra i 30 anni. Inutile dire che i suoi soggetti, la sua attitudine e la sua arte hanno avuto una grossa influenza su di me come su quasi tutti i punks che si occupano di grafica e simili…
L’ho incontrato di persona nel maggio ’99, quando, assieme ad altre persone, organizzammo la sesta edizione dell’Happening Internazionale Underground al Leoncavallo di Milano, dove fu ospitato, avendo l’occasione di vedere per la prima volta una grossa parte delle sue opere.
L’estate 2001 sono stato a San Francisco e, per una settimana, sono stato ospite a casa sua. Casa affollata e incasinata come la maggior parte delle sue opere.
Winston Smith si è dimostrato una delle persone più disponibili, ospitali, culturalmente aperte e divertenti con cui abbia avuto a che fare. Mi sembra il minimo iniziare a pubblicare qualcosa sulla versione digitale di I DON’T CARE! Partendo da lui. Questa intervista è già uscita sulla versione “cartacea” di IDC, oramai 3 anni fa, ma essendo stata letta da un paio di centinaia di persone al massimo, la ripubblico qui. Non ha certamente perso niente come attualità. Winston Smith è sempre lì. Pronto a infastidire i benpensanti con il solo aiuto di colla e forbici.
I DON’T CARE! - Come hai iniziato con i montaggi?
WINSTON SMITH - Da quando ero un bambino ritagliavo delle cose ma non ho real-mente cominciato a fare quello che faccio dal….. Ho fatto un paio di versioni differenti, alla fine degli anni ’60 e quando tornai negli USA a metà degli anni ’70, quando avevo 25 anni. Durante quegli anni stavo studiando arte “accademica” all’Accademia di Belle Arti di Firenze, disegnavo e dipingevo, cose così. Queste erano le mie principali forme d’espressione artistica. Quando sono tornato negli USA, in appena 6 o 7 anni era tutto drammaticamente cambiato, passando dal radicalismo antistato allo yuppismo. La gente rimasta qui in quegli anni e che aveva visto cambiare le cose gradualmente non ne era così sconvolta. Ma essendo stato assente così a lungo, per me è stato come passare dal giorno alla notte. Ho cominciato a realizzare dei collage che erano una specie di cronaca sociale basata sul mio sentirmi fuori posto rispetto a questa situazione. Infatti, in quel periodo la gente mi diceva ”Parli come un vecchietto rompicoglioni”, perché continuavo a sostenere che le cose andavano meglio ai vecchi tempi – ma le cose andavano real-mente meglio. Ai vecchi tempi la gente portava la rivolta nelle strade, e quando sono tornato erano crollati davanti alla televisione, ed essenzialmente occupati con il modo di pensare egoista che portò all’era di Ronald Reagan e della grettezza sfrenata. Forse ero solo geloso perché non ho fatto 10 milioni di dollari in borsa o qualcosa del genere. Mi ricordo di aver detto a Biafra che, dopo aver portato a termine il suo secondo mandato presidenziale, ed essendo quindi impossibilitato ad essere presidente più a lungo, saremmo stati presto disoccupati. Gli ho detto che dovevamo votarlo per un terzo mandato (ride). Ma non sapevamo che ci stava arrivando Newt Ginrich, che è addirittura “meglio”. Penso che, probabilmente, il mio stile attuale ho iniziato ad usarlo nel 1975 o ’76, ma è cambiato. Guardo le cose che facevo nel 1976 e ’77 ed è in gran parte differente ora. C’era un sacco di grafica realizzata per bands della prima scena punk che era orribile. Pensavo di poter realizzare qualcosa di meglio dei poster che vedevo in giro. Non sono mai stato profondamente coinvolto nella scena e non conoscevo realmente nessuno in molte bands, così realizzavo poster per concerti di bands che non esistevano in clubs che non esistevano. Li attaccavo per la città, e la gente li raccoglieva, e andava pure all’indirizzo del club, che era qualche area dismessa da qualche parte. Ho saputo da Dick Dirksen (N.d.R.: il più conosciuto promoter della scena punk californiana), molto tempo dopo, che è sempre rimasto stupito che queste bands non fossero mai venute da lui per suonare al Mabuhay Gardens. La ragione è che non esistevano!
IDC - E’ venuto prima il tuo interesse (per la scena punk) per la musica o per la po-litica, oppure una ha influenzato l’altra?
WS - Direi sicuramente la politica. Era molto di più che un movimento sociale. A quel tempo, fine anni ’70 e primi anni ’80, era certamente un movimento artistico, a volte più che musicale: c’erano molte bands che avevano un’inclinazione musicale molto marginale ed erano più interessate alla performance. La musica era più che altro una scusa per l’arte che stavano creando. (…) Direi che è stata sicuramente l’ottica politico/sociale che mi ha realmente attirato. La musica era secondaria. Non sono molto portato alla mu-sica, non so suonare alcuno strumento e la musica non mi tocca o ispira come le imma-gini visuali. Arte, film, teatro, tutte le arti visive. Mi piace la musica, e il punk rock, quando venne fuori, sembrava qualcosa che avevo aspettato tutta la vita. Sembrava proprio la cosa fatta per me, e desideravo che una cosa simile fosse successa negli anni ’60, inve-ce era tutto pace, amore e fiori e “no alla bomba” e sandali. Naturalmente chiunque avesse espresso un’attitudine come la mia si sarebbe sentito trattare come uno strano. Ero probabilmente avanti ai miei tempi. Mi piace molto di più il punk dal vivo. Non mi fa impazzire sentire i dischi. Dal vivo ti arriva tutta l’energia dell’intera scena.
IDC - Come hai conosciuto Jello Biafra e come sono i vostri rapporti?
WS - (Risate) Dura a tutt’oggi ed è veramente strana. Un nostro amico comune faceva delle cose per un giornale di Rock Against Racism. Era essenzialmente una cosa inglese, ma c’era una sezione qui a San Francisco. Questo amico continuava a guardare i poster che facevo per i concerti e continuava a dirmi che dovevo conoscere questo suo amico, perché avevamo lo stesso modo di pensare. Il pensiero di conoscere qualcuno pazzo quanto me – e lo era sicuramente! - mi spaventava abbastanza. Finimmo per andare totalmente d’accordo. Vide un pezzo che realizzai un paio d’anni prima e li piacque. Era un pezzo tridimensionale, ma vide solo una fotocopia. Era un crocefisso fatto con dei dollari, che a me sembrava un’idea abbastanza ovvia, non particolarmente sconvolgente, ma molta gente la prese diversamente. Jello arrivò a dire in seguito, nell’introduzione al mio libro, che dovette creare un intero disco sul tema solo per avere quella immagine sulla copertina, e la cosa mi ha abbastanza lusingato. Biafra e io abbiamo un rapporto abbastanza da complici di reato, del tipo “Cosa possiamo fare ora per fare un po’ di casino?”. E’ una persona che ama scherzare. E’ una persona che generalmente si diverte a fare quello che fa. Non penso che sarebbe interessato se fosse un lavoro pesante. Il suo lavoro lo fa con tutto il cuore, l’anima e la determinazione. Ha una mentalità molto semplice, quando deve realizzare qualcosa la sua capacità di concentrazione è formidabile. Ci è successo poche volte di non essere d’accordo su come una copertina andava fatta. Io dicevo che doveva essere fatta a modo mio perché era la mia arte, lui diceva che andava fatta a modo suo perché era la sua musica. Sono dovuto scendere a compromessi un paio di volte e lui altrettante, ma il risultato è stato visivamente molto appropriato, esattamente la cosa che doveva essere. Attualmente stiamo lavorando su un libro per AK Press che consiste nei testi dei suoi spoken word con alcune mie illustrazioni. Dovrebbe uscire la prossima estate, si spera, se riusciremo a muovere il culo e finirlo.
IDC - Nel tuo primo libro “Act like nothing is wrong” descrivi le tue cose come “graphic wisecracks”, vorrei sapere qualcosa sul ruolo che la satira assume nel tuo lavoro. Pensi che renda il tuo lavoro più accessibile?
WS - A volte, quando dici qualcosa in cui la gente può apprezzare l’ironia e metterla in relazione con la propria esperienza personale, l’argomento diventa più importante per loro di uno più generale e oscuro, anche se ugualmente giusto. La satira sembra aiutare perché ne faccio un uso irriverente… generalmente mi spingo troppo oltre con lo scherzo. Se tutto può essere fatto, tutto può essere esagerato, questo è il mio punto di vista (risate). Lo humor può aiutare, perché alcune delle tematiche che tratto e che ispirano i miei lavori sono così depressive e senza speranza che devi ridere per non piangere. Penso che quello che faccio sia presentare una visone totalmente estrema, densa e affollata di quello che è il soggetto. Non puoi essere troppo sottile, specialmente con il pubblico americano. Devi colpire la gente in testa. Per dire la tua, devi essere realmente esagerato, solo perché si siedano ad ascoltarti. Viviamo in un tempo e un’epoca surreali per la nostra società. Non c’è da meravigliarsi se la gente proviene da famiglie e relazioni disfunzionali, tutta la nostra società è disfunzionale. Penso a me stesso come un vivisettore che taglia e smembra i differenti strato della vita americana, specialmente l’immagine di merda del periodo del boom economico, il periodo dopo la guerra, tra gli anni ’40 e ’50, dove era tutto “comprati una nuova macchina, una casa più grande, una radio e un televisore”, e tutta questa spazzatura di plastica era così disponibile agli americani e non al resto del mondo, perché il resto del mondo era stato raso al suolo.
IDC - Nel tuo libro dici che la ragione per cui il tuo lavoro sembra folle è perché è così il mondo.
WS - Quando realizzo alcune cose che sono viste come scioccanti o repulsive o altro, penso che questo sia ovvio. Spesso penso che siano abbastanza morbide e nemmeno lontanamente scioccanti come dovrebbero essere. Al tempo in cui ho realizzato il crocefisso di dollari, volevo parlare della gente che fa milioni di dollari con la religione, oltre che di chi assume come propria religione il denaro stesso ed essenzialmente che il denaro oggi è il nostro dio. Non era niente di sacrilego, aveva solo a che fare con il dato che il vero sacrilegio è che abbiamo fatto diventare il denaro il nostro dio. Penso che la gente si fermava ad una interpretazione superficiale e pensava che l’opera era orrenda. In Inghil-terra hanno perquisito alcuni negozi a causa del poster con la croce di dollari; gli sbirri entravano e facevano chiudere il negozio. E’ successo anche in America un paio di volte, come a Boston. Un negozio è stato perquisito e sequestrato a causa di quel poster. Ci hanno fatto molta pubblicità, Avremmo dovuto dare dei soldi a quegli sbirri (risate).
IDC - La cosa divertente di quel pezzo in particolare, è che se la gente religiosa e devota cercasse di capire cosa significa realmente, o per lo meno parte del suo significato (la gente che fa i soldi sulla fede), sarebbero probabilmente d’accordo con il tuo lavoro…
WS - Il nome originale di quel pezzo era “Idolo”. Biafra ha trovato il nome più appropriato per il disco dove è apparso, In God We Trust Inc. (N.d.R. Titolo che può essere tradotto sia “In dio amministriamo S.p.A.”, sia “In dio crediamo”, giocando sul doppio significato di trust che significa sia credere sia amministrare, anche nel senso di monopolio), è una frase con diversi significati, ma è difficilmente mimetizzabile quello principale. Non puoi voltarti dall’altra parte e dire che non sta succedendo. Penso però di fare la stessa fine di molti artisti della scena: predicare ai convertiti. Non cambieremo molte teste, anche se molte persone mi hanno scritto dicendo che gli avevo realmente aperto gli occhi su alcu-ne cose, e se è così, va bene. Tutti noi abbiamo probabilmente qualcuno che ci ha in-fluenzato nella nostra gioventù, e che dobbiamo ringraziare o incolpare per averci portato su quella strada.
Il discorso prosegue parlando dell’arte contemporanea in generale e di quanto sia com-pletamente diverso il lavoro di Winston Smith.
IDC - Mi sembra che il mondo delle gallerie d’arte richieda un certo livello di vacuità e di mancanza di contenuto per avere successo. Sembra importante il fatto che questi artisti non dicano o comunichino molto. Mi stavo chiedendo, con dei lavori come i tuoi, enormemente infarciti di significati, se non ti stavi rendendo inacces-sibile alle gallerie d’arte. Non sei mai stato tentato dall’abbassare il tono dei tuoi lavori per avere un’audience maggiore?
WS - Detto tanto per scherzare, in qualche modo ci ho pensato, ma mai profondamente. Il problema è che non riesco a fare meno di quello che faccio. Se faccio qualcosa per i GREEN DAY o per qualche altra grossa band, o per, dio mi perdoni, l’IBM, o per un vicino di casa che ripara biciclette, lavorerei allo stesso modo per tutti quanti, perché non ri-esco a non fare quello che faccio dedicandomici in pieno. Mi butto totalmente in quello che faccio, che è abbastanza stancante, quando usi le tue energie totalmente sulle pic-cole cose e non te ne rimangono più per altre.
Ho conosciuto Winston Smith da giovane punk sulle copertine dei dischi dei Dead Kennedys. Questa frase penso sia comune a tutti i punk sopra i 30 anni. Inutile dire che i suoi soggetti, la sua attitudine e la sua arte hanno avuto una grossa influenza su di me come su quasi tutti i punks che si occupano di grafica e simili…
L’ho incontrato di persona nel maggio ’99, quando, assieme ad altre persone, organizzammo la sesta edizione dell’Happening Internazionale Underground al Leoncavallo di Milano, dove fu ospitato, avendo l’occasione di vedere per la prima volta una grossa parte delle sue opere.
L’estate 2001 sono stato a San Francisco e, per una settimana, sono stato ospite a casa sua. Casa affollata e incasinata come la maggior parte delle sue opere.
Winston Smith si è dimostrato una delle persone più disponibili, ospitali, culturalmente aperte e divertenti con cui abbia avuto a che fare. Mi sembra il minimo iniziare a pubblicare qualcosa sulla versione digitale di I DON’T CARE! Partendo da lui. Questa intervista è già uscita sulla versione “cartacea” di IDC, oramai 3 anni fa, ma essendo stata letta da un paio di centinaia di persone al massimo, la ripubblico qui. Non ha certamente perso niente come attualità. Winston Smith è sempre lì. Pronto a infastidire i benpensanti con il solo aiuto di colla e forbici.
I DON’T CARE! - Come hai iniziato con i montaggi?
WINSTON SMITH - Da quando ero un bambino ritagliavo delle cose ma non ho real-mente cominciato a fare quello che faccio dal….. Ho fatto un paio di versioni differenti, alla fine degli anni ’60 e quando tornai negli USA a metà degli anni ’70, quando avevo 25 anni. Durante quegli anni stavo studiando arte “accademica” all’Accademia di Belle Arti di Firenze, disegnavo e dipingevo, cose così. Queste erano le mie principali forme d’espressione artistica. Quando sono tornato negli USA, in appena 6 o 7 anni era tutto drammaticamente cambiato, passando dal radicalismo antistato allo yuppismo. La gente rimasta qui in quegli anni e che aveva visto cambiare le cose gradualmente non ne era così sconvolta. Ma essendo stato assente così a lungo, per me è stato come passare dal giorno alla notte. Ho cominciato a realizzare dei collage che erano una specie di cronaca sociale basata sul mio sentirmi fuori posto rispetto a questa situazione. Infatti, in quel periodo la gente mi diceva ”Parli come un vecchietto rompicoglioni”, perché continuavo a sostenere che le cose andavano meglio ai vecchi tempi – ma le cose andavano real-mente meglio. Ai vecchi tempi la gente portava la rivolta nelle strade, e quando sono tornato erano crollati davanti alla televisione, ed essenzialmente occupati con il modo di pensare egoista che portò all’era di Ronald Reagan e della grettezza sfrenata. Forse ero solo geloso perché non ho fatto 10 milioni di dollari in borsa o qualcosa del genere. Mi ricordo di aver detto a Biafra che, dopo aver portato a termine il suo secondo mandato presidenziale, ed essendo quindi impossibilitato ad essere presidente più a lungo, saremmo stati presto disoccupati. Gli ho detto che dovevamo votarlo per un terzo mandato (ride). Ma non sapevamo che ci stava arrivando Newt Ginrich, che è addirittura “meglio”. Penso che, probabilmente, il mio stile attuale ho iniziato ad usarlo nel 1975 o ’76, ma è cambiato. Guardo le cose che facevo nel 1976 e ’77 ed è in gran parte differente ora. C’era un sacco di grafica realizzata per bands della prima scena punk che era orribile. Pensavo di poter realizzare qualcosa di meglio dei poster che vedevo in giro. Non sono mai stato profondamente coinvolto nella scena e non conoscevo realmente nessuno in molte bands, così realizzavo poster per concerti di bands che non esistevano in clubs che non esistevano. Li attaccavo per la città, e la gente li raccoglieva, e andava pure all’indirizzo del club, che era qualche area dismessa da qualche parte. Ho saputo da Dick Dirksen (N.d.R.: il più conosciuto promoter della scena punk californiana), molto tempo dopo, che è sempre rimasto stupito che queste bands non fossero mai venute da lui per suonare al Mabuhay Gardens. La ragione è che non esistevano!
IDC - E’ venuto prima il tuo interesse (per la scena punk) per la musica o per la po-litica, oppure una ha influenzato l’altra?
WS - Direi sicuramente la politica. Era molto di più che un movimento sociale. A quel tempo, fine anni ’70 e primi anni ’80, era certamente un movimento artistico, a volte più che musicale: c’erano molte bands che avevano un’inclinazione musicale molto marginale ed erano più interessate alla performance. La musica era più che altro una scusa per l’arte che stavano creando. (…) Direi che è stata sicuramente l’ottica politico/sociale che mi ha realmente attirato. La musica era secondaria. Non sono molto portato alla mu-sica, non so suonare alcuno strumento e la musica non mi tocca o ispira come le imma-gini visuali. Arte, film, teatro, tutte le arti visive. Mi piace la musica, e il punk rock, quando venne fuori, sembrava qualcosa che avevo aspettato tutta la vita. Sembrava proprio la cosa fatta per me, e desideravo che una cosa simile fosse successa negli anni ’60, inve-ce era tutto pace, amore e fiori e “no alla bomba” e sandali. Naturalmente chiunque avesse espresso un’attitudine come la mia si sarebbe sentito trattare come uno strano. Ero probabilmente avanti ai miei tempi. Mi piace molto di più il punk dal vivo. Non mi fa impazzire sentire i dischi. Dal vivo ti arriva tutta l’energia dell’intera scena.
IDC - Come hai conosciuto Jello Biafra e come sono i vostri rapporti?
WS - (Risate) Dura a tutt’oggi ed è veramente strana. Un nostro amico comune faceva delle cose per un giornale di Rock Against Racism. Era essenzialmente una cosa inglese, ma c’era una sezione qui a San Francisco. Questo amico continuava a guardare i poster che facevo per i concerti e continuava a dirmi che dovevo conoscere questo suo amico, perché avevamo lo stesso modo di pensare. Il pensiero di conoscere qualcuno pazzo quanto me – e lo era sicuramente! - mi spaventava abbastanza. Finimmo per andare totalmente d’accordo. Vide un pezzo che realizzai un paio d’anni prima e li piacque. Era un pezzo tridimensionale, ma vide solo una fotocopia. Era un crocefisso fatto con dei dollari, che a me sembrava un’idea abbastanza ovvia, non particolarmente sconvolgente, ma molta gente la prese diversamente. Jello arrivò a dire in seguito, nell’introduzione al mio libro, che dovette creare un intero disco sul tema solo per avere quella immagine sulla copertina, e la cosa mi ha abbastanza lusingato. Biafra e io abbiamo un rapporto abbastanza da complici di reato, del tipo “Cosa possiamo fare ora per fare un po’ di casino?”. E’ una persona che ama scherzare. E’ una persona che generalmente si diverte a fare quello che fa. Non penso che sarebbe interessato se fosse un lavoro pesante. Il suo lavoro lo fa con tutto il cuore, l’anima e la determinazione. Ha una mentalità molto semplice, quando deve realizzare qualcosa la sua capacità di concentrazione è formidabile. Ci è successo poche volte di non essere d’accordo su come una copertina andava fatta. Io dicevo che doveva essere fatta a modo mio perché era la mia arte, lui diceva che andava fatta a modo suo perché era la sua musica. Sono dovuto scendere a compromessi un paio di volte e lui altrettante, ma il risultato è stato visivamente molto appropriato, esattamente la cosa che doveva essere. Attualmente stiamo lavorando su un libro per AK Press che consiste nei testi dei suoi spoken word con alcune mie illustrazioni. Dovrebbe uscire la prossima estate, si spera, se riusciremo a muovere il culo e finirlo.
IDC - Nel tuo primo libro “Act like nothing is wrong” descrivi le tue cose come “graphic wisecracks”, vorrei sapere qualcosa sul ruolo che la satira assume nel tuo lavoro. Pensi che renda il tuo lavoro più accessibile?
WS - A volte, quando dici qualcosa in cui la gente può apprezzare l’ironia e metterla in relazione con la propria esperienza personale, l’argomento diventa più importante per loro di uno più generale e oscuro, anche se ugualmente giusto. La satira sembra aiutare perché ne faccio un uso irriverente… generalmente mi spingo troppo oltre con lo scherzo. Se tutto può essere fatto, tutto può essere esagerato, questo è il mio punto di vista (risate). Lo humor può aiutare, perché alcune delle tematiche che tratto e che ispirano i miei lavori sono così depressive e senza speranza che devi ridere per non piangere. Penso che quello che faccio sia presentare una visone totalmente estrema, densa e affollata di quello che è il soggetto. Non puoi essere troppo sottile, specialmente con il pubblico americano. Devi colpire la gente in testa. Per dire la tua, devi essere realmente esagerato, solo perché si siedano ad ascoltarti. Viviamo in un tempo e un’epoca surreali per la nostra società. Non c’è da meravigliarsi se la gente proviene da famiglie e relazioni disfunzionali, tutta la nostra società è disfunzionale. Penso a me stesso come un vivisettore che taglia e smembra i differenti strato della vita americana, specialmente l’immagine di merda del periodo del boom economico, il periodo dopo la guerra, tra gli anni ’40 e ’50, dove era tutto “comprati una nuova macchina, una casa più grande, una radio e un televisore”, e tutta questa spazzatura di plastica era così disponibile agli americani e non al resto del mondo, perché il resto del mondo era stato raso al suolo.
IDC - Nel tuo libro dici che la ragione per cui il tuo lavoro sembra folle è perché è così il mondo.
WS - Quando realizzo alcune cose che sono viste come scioccanti o repulsive o altro, penso che questo sia ovvio. Spesso penso che siano abbastanza morbide e nemmeno lontanamente scioccanti come dovrebbero essere. Al tempo in cui ho realizzato il crocefisso di dollari, volevo parlare della gente che fa milioni di dollari con la religione, oltre che di chi assume come propria religione il denaro stesso ed essenzialmente che il denaro oggi è il nostro dio. Non era niente di sacrilego, aveva solo a che fare con il dato che il vero sacrilegio è che abbiamo fatto diventare il denaro il nostro dio. Penso che la gente si fermava ad una interpretazione superficiale e pensava che l’opera era orrenda. In Inghil-terra hanno perquisito alcuni negozi a causa del poster con la croce di dollari; gli sbirri entravano e facevano chiudere il negozio. E’ successo anche in America un paio di volte, come a Boston. Un negozio è stato perquisito e sequestrato a causa di quel poster. Ci hanno fatto molta pubblicità, Avremmo dovuto dare dei soldi a quegli sbirri (risate).
IDC - La cosa divertente di quel pezzo in particolare, è che se la gente religiosa e devota cercasse di capire cosa significa realmente, o per lo meno parte del suo significato (la gente che fa i soldi sulla fede), sarebbero probabilmente d’accordo con il tuo lavoro…
WS - Il nome originale di quel pezzo era “Idolo”. Biafra ha trovato il nome più appropriato per il disco dove è apparso, In God We Trust Inc. (N.d.R. Titolo che può essere tradotto sia “In dio amministriamo S.p.A.”, sia “In dio crediamo”, giocando sul doppio significato di trust che significa sia credere sia amministrare, anche nel senso di monopolio), è una frase con diversi significati, ma è difficilmente mimetizzabile quello principale. Non puoi voltarti dall’altra parte e dire che non sta succedendo. Penso però di fare la stessa fine di molti artisti della scena: predicare ai convertiti. Non cambieremo molte teste, anche se molte persone mi hanno scritto dicendo che gli avevo realmente aperto gli occhi su alcu-ne cose, e se è così, va bene. Tutti noi abbiamo probabilmente qualcuno che ci ha in-fluenzato nella nostra gioventù, e che dobbiamo ringraziare o incolpare per averci portato su quella strada.
Il discorso prosegue parlando dell’arte contemporanea in generale e di quanto sia com-pletamente diverso il lavoro di Winston Smith.
IDC - Mi sembra che il mondo delle gallerie d’arte richieda un certo livello di vacuità e di mancanza di contenuto per avere successo. Sembra importante il fatto che questi artisti non dicano o comunichino molto. Mi stavo chiedendo, con dei lavori come i tuoi, enormemente infarciti di significati, se non ti stavi rendendo inacces-sibile alle gallerie d’arte. Non sei mai stato tentato dall’abbassare il tono dei tuoi lavori per avere un’audience maggiore?
WS - Detto tanto per scherzare, in qualche modo ci ho pensato, ma mai profondamente. Il problema è che non riesco a fare meno di quello che faccio. Se faccio qualcosa per i GREEN DAY o per qualche altra grossa band, o per, dio mi perdoni, l’IBM, o per un vicino di casa che ripara biciclette, lavorerei allo stesso modo per tutti quanti, perché non ri-esco a non fare quello che faccio dedicandomici in pieno. Mi butto totalmente in quello che faccio, che è abbastanza stancante, quando usi le tue energie totalmente sulle pic-cole cose e non te ne rimangono più per altre.
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