SAXON
Milano, Palasport, gennaio 1984
THE CLASH
Milano, Palasport, febbraio 1984
Il 1984, nonostante lo sgombero del Virus da Via Correggio 18, fu un discreto anno per i concerti, almeno per me. Infatti fu quell'anno che vidi il mio primo concerto autogestito (MDC, Impact e Wretched, ma leggetevi qualche post indietro per saperne di più), nonché, appunto, Saxon e Clash.
Entrambi i concerti si tennero al Palasport, che, per chi avesse meno di 30 anni, era un palazzetto che sorgeva di fianco allo stadio San Siro, dove giocava la gloriosa Olimpia Milano (squadra meneghina di basket, che all'epoca credo si chiamasse Billy).
Il Palasport non ebbe vita lunga: nonostante l'architettura moderna e l'avvenieristica tensiostruttura del tetto, la nevicata che a fine inverno 84 portò quasi un metro di neve sulla madonnina, gli fu fatale, infatti cedette e collasso su se stesso.
Ma lasciando da parte le carenze progettuali dell'ingegneria strutturale contemporanea e torniamo ai concerti.
I Saxon furono il primo gruppo che riuscii a vedere dall'inizio alla fine, con biglietto comprato giorni prima in prevendita, in compagnia di mio cuggino (automunito oltretutto!) e di un tot di amici vari.
Dal punto di vista dello spettacolo bisogna ammettere che i metallozzi ci hanno sempre saputo fare: dietro il palco campeggiava un'aquila gigantesca con il logo del gruppo, pareti di Marshall, americane cariche di luci, 5/6 metallari tamarri inglesi sul palco, 30.000 metallari tamarri italiani nella platea e sugli spalti.
Era il tour di "Strong Arm Of The Law", inizianva l'orwelliano anno 1984 e, nelle loro camerette di tutto il mondo, teenager brufolosi improvvisavano assoli su chitarre aeree al suono della New Wave Of British Heavy Metal.
Erano gli anni di "Killer" degli Iron Maiden, degli Accept, degli Scorpions.
I Motorhead sferragliavano già da anni, i Metallica non erano nessuno, i Guns'n'Roses nemmeno esistevano.
Il palasport era un tappeto di capelli lunghi, chiodi di pelle e jeans elasticizzati.
Io, con la mia t-shirt bianca degli UK Subs, gli anfibi e i capelli a spuntoni (spuntoni tirati su con il sapone, mica la lacca! poi uno si domanda perché perde i capelli...), risaltavo come una caccola di piccione su un pavimento nero.
I pezzi che suonarono non me li ricordo, del resto sono passati 18 anni, ma a logica avranno suonato i pezzi dell'allora nuovo lp (si, LP, ai tempi i cd non esistevano) più un tot di classici.
Quello che ricordo erano 30.000 persone impegnate a suonare chitarre, bassi e batterie immaginarie, mentre io e mio cuggino eravamo gli unici due stronzi che pogavano.
Chissà perchè tutti quelli che suonano strumenti immaginari durante un concerto suonano solo chitarra, basso o batteria. Non c'è mai nessuno che faccia, che so, le tastiere o il sax. Voglio dire, è una specialità da metallari e nel metal non si usa un granchè il sax, ma le tastiere si. Pensate a qualche tastierista famoso: ti fai il mazzo per 15 anni a suonare il pianoforte, i compagni di scuola ti pigliano per il culo, con il tuo strumento non puoi suonare le canzoni di Battisti davanti al fuoco sulla spiaggia d'estate, poi, quando compri le tastiere e metti su il complessino rock con gli amici sei sempre ai lati del palco, gli altri saltano e si agitano e scendono a salutare il pubblico, mentre tu sei bloccato dietro al tuo catafalco, se metti la tastiera a tracolla sembri Sandy Marton e non aggiungo altro, infine tutto il pubblico imita i movimenti di tutti i musicisti meno il tuo. Per forza, chi si sentirebbe figo durante un concerto suonando una pianola immaginaria muovendo il culo a destra e a sinistra?
Poi chissà perché solo i metallari amano "suonare" strumenti immaginari durante un concerto (oltre a fare headbanging, va da sè)? Probabilmente deve essere il contrasto inconscio tra la fisicità barbarica e la tecnicità strumentistica, in pratica, un incontro tra l'australopiteco e il monolite di 2001 Odissea Nello Spazio.
Un pò tutto il concerto sembrava comunque il contest internazionale di air guitar. A parte noi due stronzi che pogavamo. Addirittura, avendo urtato inavvertitamente un "air chitarrista", mi sono beccato pure un vaffanculo, probabilmente per avergli fatto sbagliare l'assolo...
Alla fine, concerto più che divertente, anche se data la allora scarsa esperienza nel campo, probabilmente dovuta più alla novità della situazione che all'effettiva qualità dell'imbolsito combo britannico.
Poche settimane dopo sono ancora al Palasport, questa volta non per l'ennesimo battaglione metallico ma per l'arrivo degli alfieri del combat rock, ultimi sopravvissuti del punk 77 inglese: i Clash.
Come già raccontato qualche post addietro, avevo scoperto il punk pochi anni prima, ma quando acquistavo i dischi di Sex Pistols, Damned, Generation X, X-Ray Spex e simili, questi gruppi erano quasi tutti sciolti.
Dei gruppi storici rimanevano solo i Clash, che, dopo un tour europeo che li portò al Vigorelli un paio di anni prima, tornavano in Italia per promuovere il nuovo vinile.
Per uno di quei misteri insondabili chiari solo nell'infido mondo dei promoter italiani, il tour italiano constava di 2 date. Entrambe al Palasport di Milano.
Io, data l'eccitazione, presi subito il biglietto per il primo dei due giorni, per essere sicuro di non perderli.
Il giorno del concerto, riparati gli anfibi che stavano perdendo la suola, presi la 90 per Piazzale Brescia e il 24 per San Siro.
In un torrido tardo pomeriggio della fine di febbraio mi trovai a congelare fuori dai cancelli del palasport.
Ebbene si. All'epoca anch'io facevo parte di quel genere di persone che arrivano ai concerti quando il locale era ancora chiuso, per prendere i posti migliori (idea assolutamente illusoria, date le mie ridotte dimensioni di allora).
Una volta aperti i cancelli mi precipitai dentro con il resto della folla e mi resi conto che chi aveva organizzato il concerto era un pirla.
Probabilmente il giorno precedente doveva esserci stato un concerti di Nilla Pizzi o un congresso del PSI craxiano, infatti, fino a 3 metri dal palco, tutta la platea era coperta di lunghissime file di sedie. Quelle sedie che hanno le gambe in ferro, saldate insieme a gruppi di dieci, e il sedile in plastica avvitato sopra.
Vedere un concerto punk seduti in fila è come viaggiare in autostrada ad agosto con il condizionatore rotto e i finestrini bloccati. Ti causa una sottile agitazione mista a un lieve fastidio.
E' inutile dire che, già a metà del primo pezzo, ma che dico "primo pezzo"? già appena dopo il tipico saluto di Joe Strummer "Ciao Melano! viva brighade rosse!", sul palco, sull'impianto, sul backstage, ma sopratutto sugli sbirri, cominciarono a piovere sedili di plastica, estirpati a forza o a calci dalla sede metallica a cui erano avvitati.
La parte metallica era però rivettata al pavimento e, senza l'apposita attrezzatura, impossibile da staccare.
Si assisteva quindi allo spettacolo assurdo di gente che pogava nei corridoi tra le file di sedie, vere e proprie cariche di un centinaio di persone che correvano da un blocco all'altro e si ammucchiavano nel corridoio davanti al palco.
Il concerto intanto continuava, i Clash attraversavano la loro produzione con la sicurezza di un vecchio lupo di mare che doppia Capo Horn.
Tutti i vecchi classici tratti da The Clash, Give'em..., London Calling e Sandinista!
Inutile fare la scaletta dei pezzi, sono quelli... si, proprio quelli che immagini. Tutti. Per un paio d'ore di concerto.
Ed è anche inutile dire che il concerto è finito con White Riot. Come è inutile dire che durante White Riot il pubblico è esploso, non solo nella platea, da cui partivano decine di sedie che volavano verso il palco e il backstage, ma anche sugli spalti, dove la gente faceva stage diving sulle gradinate, come avviene tuttora sugli spalti degli stadi di tutta Italia.
A fine concerto quello che rimaneva delle prime 50 file di sedie era la struttura metallica piegata, con brandelli di plastica bloccati dalle viti più strette. Si potrebbe dire uno spettacolo da campo di battaglia, se in un campo di battaglia si potessero mettere delle file di sedie.
Alla fine del concerto, come il resto del pubblico, ero fradicio di sudore, il sapone che usavo per tenere in piedi i capelli con degli immondi crostoni si era sciolto, colandomi in faccia e bruciandomi gli occhi con piccoli rivoli schiumosi.
Qualcuno, che si era colorato i capelli con la tempera aveva piccole striscie rosse o blu che gli rigavano la faccia.
Fuori, dove la temperatura polare aveva avuto ragione degli ultimi brandelli di salute dei punks più vecchi, ci aspettava la Milano da bere degli anni ottanta, con tutti i suoi yuppies, i paninari, i fighetti, Craxi e Andreotti, i sessantottini rifluiti, i settantasettini tossici, gli sgomberi degli spazi occupati. E la sola consolazione di un paio di dischi il sabato in Via Torino e una canna sulla collinetta del Parco Lambro.
Ma alla fine alcuni (probabilmente pochi) sono ancora qui, a pisciare sopra al revival degli anni 80, che furono e saranno sempre degli anni di merda.
Ma non mi sembra bello finire con un tono da "pessimismo e fastidio", per cui aggiungo quello che scrissero i Negazione su uno dei loro dischi:
"Abbiamo sempre sommato momenti su momenti cercando di ottenere qualcosa che non fosse solo nelle nostre menti, collezione di attimi per le sensazioni più belle, non abbiamo mai avuto una base concreta e solida da calpestare ne qualcosa da stringere tra le mani; abbiamo sentito il logorio dei giorni e degli anni dentro; abbiamo percorso ormai per troppo tempo strade e ripetuto gesti troppo vecchi; abbiamo visto tutta la gente andare via, prima o poi, e abbiamo visto scomparire tante, troppe cose, l'unica certezza resta la precarietà, resta la solitudine; cose e persone cresciute attorno a noi non sono mai cresciute con noi, ne tantomeno per noi. Eppure siamo ancora qui, soli in un abbraccio disperato, ma lucidi nella nostra trasgressione, unici come mai, alla rincorsa di un sogno senza fine, pronti ad attaccarsi al più piccolo frammento di speranza, alle parole, ai gesti, a tutto ciò che ci rimane e ci può far continuare. Questa è la nostra musica, le nostre canzoni, la nostra vita; questo siamo noi, perché sappiamo che il "giorno del sole" non è lontano, anche se siamo qui legati. LO SPIRITO CONTINUA!"
Milano, Palasport, gennaio 1984
THE CLASH
Milano, Palasport, febbraio 1984
Il 1984, nonostante lo sgombero del Virus da Via Correggio 18, fu un discreto anno per i concerti, almeno per me. Infatti fu quell'anno che vidi il mio primo concerto autogestito (MDC, Impact e Wretched, ma leggetevi qualche post indietro per saperne di più), nonché, appunto, Saxon e Clash.
Entrambi i concerti si tennero al Palasport, che, per chi avesse meno di 30 anni, era un palazzetto che sorgeva di fianco allo stadio San Siro, dove giocava la gloriosa Olimpia Milano (squadra meneghina di basket, che all'epoca credo si chiamasse Billy).
Il Palasport non ebbe vita lunga: nonostante l'architettura moderna e l'avvenieristica tensiostruttura del tetto, la nevicata che a fine inverno 84 portò quasi un metro di neve sulla madonnina, gli fu fatale, infatti cedette e collasso su se stesso.
Ma lasciando da parte le carenze progettuali dell'ingegneria strutturale contemporanea e torniamo ai concerti.
I Saxon furono il primo gruppo che riuscii a vedere dall'inizio alla fine, con biglietto comprato giorni prima in prevendita, in compagnia di mio cuggino (automunito oltretutto!) e di un tot di amici vari.
Dal punto di vista dello spettacolo bisogna ammettere che i metallozzi ci hanno sempre saputo fare: dietro il palco campeggiava un'aquila gigantesca con il logo del gruppo, pareti di Marshall, americane cariche di luci, 5/6 metallari tamarri inglesi sul palco, 30.000 metallari tamarri italiani nella platea e sugli spalti.
Era il tour di "Strong Arm Of The Law", inizianva l'orwelliano anno 1984 e, nelle loro camerette di tutto il mondo, teenager brufolosi improvvisavano assoli su chitarre aeree al suono della New Wave Of British Heavy Metal.
Erano gli anni di "Killer" degli Iron Maiden, degli Accept, degli Scorpions.
I Motorhead sferragliavano già da anni, i Metallica non erano nessuno, i Guns'n'Roses nemmeno esistevano.
Il palasport era un tappeto di capelli lunghi, chiodi di pelle e jeans elasticizzati.
Io, con la mia t-shirt bianca degli UK Subs, gli anfibi e i capelli a spuntoni (spuntoni tirati su con il sapone, mica la lacca! poi uno si domanda perché perde i capelli...), risaltavo come una caccola di piccione su un pavimento nero.
I pezzi che suonarono non me li ricordo, del resto sono passati 18 anni, ma a logica avranno suonato i pezzi dell'allora nuovo lp (si, LP, ai tempi i cd non esistevano) più un tot di classici.
Quello che ricordo erano 30.000 persone impegnate a suonare chitarre, bassi e batterie immaginarie, mentre io e mio cuggino eravamo gli unici due stronzi che pogavano.
Chissà perchè tutti quelli che suonano strumenti immaginari durante un concerto suonano solo chitarra, basso o batteria. Non c'è mai nessuno che faccia, che so, le tastiere o il sax. Voglio dire, è una specialità da metallari e nel metal non si usa un granchè il sax, ma le tastiere si. Pensate a qualche tastierista famoso: ti fai il mazzo per 15 anni a suonare il pianoforte, i compagni di scuola ti pigliano per il culo, con il tuo strumento non puoi suonare le canzoni di Battisti davanti al fuoco sulla spiaggia d'estate, poi, quando compri le tastiere e metti su il complessino rock con gli amici sei sempre ai lati del palco, gli altri saltano e si agitano e scendono a salutare il pubblico, mentre tu sei bloccato dietro al tuo catafalco, se metti la tastiera a tracolla sembri Sandy Marton e non aggiungo altro, infine tutto il pubblico imita i movimenti di tutti i musicisti meno il tuo. Per forza, chi si sentirebbe figo durante un concerto suonando una pianola immaginaria muovendo il culo a destra e a sinistra?
Poi chissà perché solo i metallari amano "suonare" strumenti immaginari durante un concerto (oltre a fare headbanging, va da sè)? Probabilmente deve essere il contrasto inconscio tra la fisicità barbarica e la tecnicità strumentistica, in pratica, un incontro tra l'australopiteco e il monolite di 2001 Odissea Nello Spazio.
Un pò tutto il concerto sembrava comunque il contest internazionale di air guitar. A parte noi due stronzi che pogavamo. Addirittura, avendo urtato inavvertitamente un "air chitarrista", mi sono beccato pure un vaffanculo, probabilmente per avergli fatto sbagliare l'assolo...
Alla fine, concerto più che divertente, anche se data la allora scarsa esperienza nel campo, probabilmente dovuta più alla novità della situazione che all'effettiva qualità dell'imbolsito combo britannico.
Poche settimane dopo sono ancora al Palasport, questa volta non per l'ennesimo battaglione metallico ma per l'arrivo degli alfieri del combat rock, ultimi sopravvissuti del punk 77 inglese: i Clash.
Come già raccontato qualche post addietro, avevo scoperto il punk pochi anni prima, ma quando acquistavo i dischi di Sex Pistols, Damned, Generation X, X-Ray Spex e simili, questi gruppi erano quasi tutti sciolti.
Dei gruppi storici rimanevano solo i Clash, che, dopo un tour europeo che li portò al Vigorelli un paio di anni prima, tornavano in Italia per promuovere il nuovo vinile.
Per uno di quei misteri insondabili chiari solo nell'infido mondo dei promoter italiani, il tour italiano constava di 2 date. Entrambe al Palasport di Milano.
Io, data l'eccitazione, presi subito il biglietto per il primo dei due giorni, per essere sicuro di non perderli.
Il giorno del concerto, riparati gli anfibi che stavano perdendo la suola, presi la 90 per Piazzale Brescia e il 24 per San Siro.
In un torrido tardo pomeriggio della fine di febbraio mi trovai a congelare fuori dai cancelli del palasport.
Ebbene si. All'epoca anch'io facevo parte di quel genere di persone che arrivano ai concerti quando il locale era ancora chiuso, per prendere i posti migliori (idea assolutamente illusoria, date le mie ridotte dimensioni di allora).
Una volta aperti i cancelli mi precipitai dentro con il resto della folla e mi resi conto che chi aveva organizzato il concerto era un pirla.
Probabilmente il giorno precedente doveva esserci stato un concerti di Nilla Pizzi o un congresso del PSI craxiano, infatti, fino a 3 metri dal palco, tutta la platea era coperta di lunghissime file di sedie. Quelle sedie che hanno le gambe in ferro, saldate insieme a gruppi di dieci, e il sedile in plastica avvitato sopra.
Vedere un concerto punk seduti in fila è come viaggiare in autostrada ad agosto con il condizionatore rotto e i finestrini bloccati. Ti causa una sottile agitazione mista a un lieve fastidio.
E' inutile dire che, già a metà del primo pezzo, ma che dico "primo pezzo"? già appena dopo il tipico saluto di Joe Strummer "Ciao Melano! viva brighade rosse!", sul palco, sull'impianto, sul backstage, ma sopratutto sugli sbirri, cominciarono a piovere sedili di plastica, estirpati a forza o a calci dalla sede metallica a cui erano avvitati.
La parte metallica era però rivettata al pavimento e, senza l'apposita attrezzatura, impossibile da staccare.
Si assisteva quindi allo spettacolo assurdo di gente che pogava nei corridoi tra le file di sedie, vere e proprie cariche di un centinaio di persone che correvano da un blocco all'altro e si ammucchiavano nel corridoio davanti al palco.
Il concerto intanto continuava, i Clash attraversavano la loro produzione con la sicurezza di un vecchio lupo di mare che doppia Capo Horn.
Tutti i vecchi classici tratti da The Clash, Give'em..., London Calling e Sandinista!
Inutile fare la scaletta dei pezzi, sono quelli... si, proprio quelli che immagini. Tutti. Per un paio d'ore di concerto.
Ed è anche inutile dire che il concerto è finito con White Riot. Come è inutile dire che durante White Riot il pubblico è esploso, non solo nella platea, da cui partivano decine di sedie che volavano verso il palco e il backstage, ma anche sugli spalti, dove la gente faceva stage diving sulle gradinate, come avviene tuttora sugli spalti degli stadi di tutta Italia.
A fine concerto quello che rimaneva delle prime 50 file di sedie era la struttura metallica piegata, con brandelli di plastica bloccati dalle viti più strette. Si potrebbe dire uno spettacolo da campo di battaglia, se in un campo di battaglia si potessero mettere delle file di sedie.
Alla fine del concerto, come il resto del pubblico, ero fradicio di sudore, il sapone che usavo per tenere in piedi i capelli con degli immondi crostoni si era sciolto, colandomi in faccia e bruciandomi gli occhi con piccoli rivoli schiumosi.
Qualcuno, che si era colorato i capelli con la tempera aveva piccole striscie rosse o blu che gli rigavano la faccia.
Fuori, dove la temperatura polare aveva avuto ragione degli ultimi brandelli di salute dei punks più vecchi, ci aspettava la Milano da bere degli anni ottanta, con tutti i suoi yuppies, i paninari, i fighetti, Craxi e Andreotti, i sessantottini rifluiti, i settantasettini tossici, gli sgomberi degli spazi occupati. E la sola consolazione di un paio di dischi il sabato in Via Torino e una canna sulla collinetta del Parco Lambro.
Ma alla fine alcuni (probabilmente pochi) sono ancora qui, a pisciare sopra al revival degli anni 80, che furono e saranno sempre degli anni di merda.
Ma non mi sembra bello finire con un tono da "pessimismo e fastidio", per cui aggiungo quello che scrissero i Negazione su uno dei loro dischi:
"Abbiamo sempre sommato momenti su momenti cercando di ottenere qualcosa che non fosse solo nelle nostre menti, collezione di attimi per le sensazioni più belle, non abbiamo mai avuto una base concreta e solida da calpestare ne qualcosa da stringere tra le mani; abbiamo sentito il logorio dei giorni e degli anni dentro; abbiamo percorso ormai per troppo tempo strade e ripetuto gesti troppo vecchi; abbiamo visto tutta la gente andare via, prima o poi, e abbiamo visto scomparire tante, troppe cose, l'unica certezza resta la precarietà, resta la solitudine; cose e persone cresciute attorno a noi non sono mai cresciute con noi, ne tantomeno per noi. Eppure siamo ancora qui, soli in un abbraccio disperato, ma lucidi nella nostra trasgressione, unici come mai, alla rincorsa di un sogno senza fine, pronti ad attaccarsi al più piccolo frammento di speranza, alle parole, ai gesti, a tutto ciò che ci rimane e ci può far continuare. Questa è la nostra musica, le nostre canzoni, la nostra vita; questo siamo noi, perché sappiamo che il "giorno del sole" non è lontano, anche se siamo qui legati. LO SPIRITO CONTINUA!"
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