a Repo


(Raramente posto testi non miei, questa è una di quelle volte. Grazie Moe per quello che hai scritto, ciao Repo)

Bologna, martedì 28 ottobre 1997
Vivevo a Bologna da meno di una settimana. Erano state giornate piuttosto angoscianti, dormivo in un caseggiato enorme in periferia, a San Donato. Non conoscevo nessuno. Pur non essendo mai stato un mammone il distacco dai miei genitori era stato piuttosto malinconico anche perché, con una decisione strana, avevano scelto di accompagnarmi fino a Bologna in macchina quando già dall’adolescenza mi muovevo in maniera indipendente. All’epoca nessuno aveva ancora i cellulari, Internet esisteva e l’avevo visto una volta nel corso dell’estate a casa di un amico: una noia mortale, dieci minuti di attesa per trovare il testo di una canzone che compariva sullo schermo un pixel alla volta. Nella casa dove mi trovavo non c’erano neanche il telefono e la televisione. L’unico contatto con il mio mondo di provenienza era la cabina del telefono di via Eleonora Duse. La prima sera l’ho passata sul balcone a guardare la città dell’alto. Temevo di aver fatto la cazzata. Mi aspettavano davvero cinque anni di quella solitudine?
Ho deciso quindi di aggrapparmi a uno dei due punti fermi della mia vita di allora: lo sport. L’altro, l’Aerosol Writing, avevo deciso di sacrificarlo in nome di una necessaria maturità e di un senso di responsabilità che la mia nuova condizione imponeva. Avevo vent’anni da poco più di un mese e dovevo cavarmela da solo, senza creare difficoltà ulteriori ai miei genitori cui era richiesto lo sforzo economico di mantenermi negli studi. In più non conoscevo nessuno del giro bolognese, sì certo, ammiravo da sempre DeeMo, gli SPA, sapevo che Longe, uno dei primi trainbomber italiani di spessore era di lì. Niente di più e poi non avevo il coraggio di cercare contatti con persone che non conoscevo e che temevo non mi avrebbero accettato in quanto semisconosciuto. Avevo comunque deciso di finire quella decina di spray che mi ero portato da casa e di chiudere, così ho cominciato a girare e mettere molte tag per finire i colori e conoscere meglio questa città che trovavo incredibilmente affascinante. Nei giorni successivi la situazione è andata sensibilmente migliorando, cominciavo a prendere dimestichezza con l’università e la città. Mi cresceva dentro l’entusiamo della novità e della vita indipendente, solo la sera mi assaliva un po’ di malinconia perché i compagni di appartamento (che non avevo ancora conosciuto di persona) non erano ancora arrivati ed ero sempre solo. Almeno fino a martedì 28 ottobre 1997: mi stavo allenando in un parco che scoprirò poi essere chiamato “il Cavallazzi”, bazzicavo lì perchè era sotto casa mia e anche perché c’erano i pezzi e la cosa mi rendeva il luogo famigliare. Era pomeriggio tardo, già piuttosto buio, umido e c’era un po’ di foschia. Sto correndo quando dietro l’angolo sento il rumore inconfondibile dello spray: c’è un ragazzo, molto giovane e con i capelli lunghissimi che sta disegnando. Mi fermo alle sue spalle per osservare il pezzo che sta facendo. Non riesco a leggerlo, è troppo incasinato, comunque sono sicuro di non aver mai visto altri lavori suoi, né sulle fanze né dal vivo. Vorrei dire qualcosa ma non so come attaccare discorso, ma fa freddo, il parco è deserto e dopo pochi istanti è lui a notarmi, non può non accorgersi di me alle sue spalle. Si gira, mi sorride e mi dice “ciao, io sono Roberto”. Ci siamo dati la mano. Poi per tanti anni non ce la siamo più lasciata.
Fino a ieri.

Ciao amico mio carissimo.
Ciao.

(Moe)

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