HOW I TURNED INTO A TEENAGE PINKO COMMIE FROM OUTER SPACE

HOW I TURNED INTO A TEENAGE PINKO COMMIE FROM OUTER SPACE
ovvero
IL SUBBUGLIO ORMONALE IN UN'OTTICA MARXISTA-LENINISTA


Era un qualunque giorno di un qualunque mese. Ma l'anno lo ricordo bene: era il 1986.
Avevo iniziato da pochi mesi l'università e, dato che seguire le lezioni non è mai stata una delle attività da me predilette, avevo scoperto l'area cosidetta di "interfacoltà" del Politecnico.
Si trattava di cinque aulette, che l'università considerava aule di studio per gli studenti, ma che, in realtà, erano la sede dei vari gruppi e collettivi politici universitari.
Due erano occupate da ingegneri di CL, una dalla FGCI, una da studenti "non politici" (in realtà CieLlini undercover) e l'ultima divisa tra Democrazia Proletaria e Comitati Leninisti.
Democrazia Proletaria era abbastanza alla frutta. In università avevano un collettivo di 4 persone, tutti vicini alla tesi. Nel giro di uno/due anni sarebbero scomparsi dall'università.
Non volevano, però, lasciare lo spazio ai Leninisti e men che meno ai ciellini, quindi erano ben contenti se il loro spazio era usato da gente per lo meno "vicina", nel senso più ampio e sfumato del termine, alle loro posizioni.
In quel periodo cominciai a frequentare l'interfacoltà, nell'aula di DP, per un motivo assolutamente imprescindibile: eterne partite a carte, di briscola, scopone, tresette, ciapanò.
Le aulette dell'interfacoltà erano piene di studenti chini sui libri e sugli appunti, la nostra era satura di fumo, birre, punteggi delle partite scritti sui muri. Questo tutti i giorni, dall'apertura della facoltà fino alla chiusura.
Salvo un pomeriggio alla settimana.
Il giovedì pomeriggio si ritrovavano per la loro assemblea i Comitati leninisti.
I Comitati Leninisti, quelli che diffondono il giornale Lotta Comunista, erano un collettivo che, all'epoca, aveva più lettere nel nome che aderenti al movimento.
Però erano gente tranquilla e, a parte discreti ma continui tentativi di convertire dei punk, dark e cani sciolti, debosciati e chiassosi 19/20enni, in masse proletarie in ordinata marcia verso il sol dell'avvenire, non rompevano mai le palle.
Ogni tanto capitava che, sotto i fumi dell'alcol qualcuno si mettesse a discutere di politica con loro, ma avevi sempre quella sensazione da "Invasione degli Ultracorpi". La stessa cosa che succede parlando di religione con un testimone di geova o con un hare krishna: te li immagini usciti da un baccellone il giorno precedente, sopprimere la loro controparte umana e usurparne il posto.
Te li immagini radunati insieme che ti guardano e si comunicano mentalmente "Lui non è uno di noi...", ripetutamente, finché quelle parole ti rimbombano nel cervello e scappi urlando.
In realtà avevano una tattica vera e propria con nuovi e possibili adepti, ma questo lo scoprii solo in seguito.
A volte, dicevo, capitava di parlare con qualcuno di loro.
In particolare, a me capitava di parlare con questa ragazza, di un paio d'anni più vecchia di me.
Molto carina, capelli neri e lunghi, occhi scuri, curve giuste, vestiario... mhh... troppo anni 70, ma vabbè.
Io mi ci fermavo a parlare spesso, giusto per il gusto di guardare quegli occhi scuri.
Certo, potevo fare più attenzione. Quando riemergevo dal profondo di quegli occhi e riprendevo coscienza, non capivo mai perché l'argomento si era spostato sulle assemblee della loro sezione (che, per la cronaca, è quella di Via Pacini).
Io cominciavo a intortarmela con dei classici da broccolaggio universitario, tipo appuntamenti per il pranzo, aperitivi, coincidenze di orari vuoti tra una lezione e l'altra, cose così. Poi lei, con voce suadente, deviava il discorso, parlava d'altro, mi intontiva con toni e movenze ipnotiche.
Per fortina il dio dei cazzoni vegliava su di me, e riprendevo coscienza un attimo prima.
Prima di cosa, non lo so.
Immagino qualcosa per cui mi sarei svegliato nella loro sede di Via Pacini, steso su un grosso tavolo con a fianco un baccellone che sta per schiudersi, mentre loro, con sguardo fisso verso il baccello cantilenano in coro "uno di noi! uno di noi!! UNO DI NOI!!!", mentre in sottofondo la colonna sonora si fa sempre più incombente.
Chiunque abbia frequentato l'università li ha visti, mentre all'ingresso cercano di venderti una copia di "Lotta Comunista" o fanno campagne di autofinanziamento vendendo libri che nessuno compra.
Sono sorridenti, gentili, educati.
Nessuno si sognerebbe di trattarli male.
Certo, magari ti sentivi un po' in imbarazzo quando ti fermavi a parlare con la morettina e lei ti proponeva di andare insieme all'assemblea che, invariabilmente, era quello stesso pomeriggio, specie se eri insieme ai tuoi amici, cazzoni come te, e la moretta in questione aveva un gonnone lungo di velluto a coste blu e un vestiario che non avrebbe sfigurato in un coro parrocchiale.

Ma un giorno.
Un terribile giorno.
Non so se per qualche birra di troppo, non so se per qualcos'altro di troppo, ero particolarmente allegro e amichevole.
Quella socialità speciale che ti da l'alcol quando ne hai bevuto un po' di più che per dissetarti e un po' meno che per avere la bocca impastata e pronunciare le parole strascicate.
Quella socialità per cui ti sembra di dire tutto quello che va detto al momento giusto, dosando istintivamente difesa e attacco, avanzata trionfale e ritirata strategica.
Perché deve essere lei a desiderarti, deve essere lei a voler andare da qualche parte con te.
Quel giorno sentivo la vittoria in pugno.
Lei sorrideva e mi lasciava parlare.
E quando, dolcemente, mi chiese se volevo andare a mangiare con lei, la domanda sembrava l'inevitabile finale di una partita perfetta.
L'arte della guerra applicata al broccolaggio, Sun Tzu sarebbe stato fiero di me.
L'inevitabile conclusione di una sequenza che avrebbe potuto portare a un'unica soluzione: il vomere in bretelle e anfibi avrebbe arato il campo di terra rossa.
Bella prospettiva, eh?
Io mi incamminavo per Via Ampere, mentre lei al mio fianco mi prendeva il braccio.
Gli ormoni facevano la ola sugli spalti del mio cervello.
Sirene.
Trombe squillavano.
Sirene.
Petardi, Trikketrakke.
Gli angeli scendevano dal paradiso dei cazzoni, intonando alleluja di rara ubriachezza molesta e caciarona.
Sirene.
Fuochi d'artificio.
Missili intercontinentali che partivano dalle rampe di lancio.
Il dio dei cazzoni in persona veniva giù a fare il tifo per me.
Sirene.
Sirene.
Sirene.
Che cazzo sono 'ste cazzo di sirene?
Lucine che si accendono.
Sirene.
Allarmi.
Antifurto.
Password non valida.
Accesso negato.
System overload.

Che cazzo succede, eh?
Che cazzo sono queste sirene nel cervello?
Sto andando al bar con quella che, a parte un vestito di una mediocrità imbarazzante, è una bella figa. Che il mio inconscio voglia comunicarmi qualcosa?
L'ululato della sirena diventa insostenibile quando, oramai al traino del suo braccio caldo e accogliente, da Via Ampere svoltiamo in Via Pacini.
Nella direzione sbagliata.
Io gli dico "tutti i bar, rosticcerie e fornai sono nell'altra direzione, verso Piazza Piola, non verso la stazione di Lambrate".
"No", mi dice lei. "C'è un bar vicino".
Io so che non ci sono bar per qualche centinaio di metri e, colto da un terrificante, orribile dubbio gli chiedo "Ma vicino a cosa, scusa?".
"Vicino alla nostra sede, ogni tanto andiamo a mangiare li." Mi risponde innocente "Hanno anche la birra che ti piace!".
Ho abboccato come un pesce. Esca, amo e filo. Pensavo di essere un lupo della steppa a caccia di prede sfuggenti e invece ero un cane da salotto che girava in tondo inseguendo la propria coda.
Vabbè. Il gioco e scoperto. Vediamo di uscirne con dignità.
Se giro sui tacchi e fuggo via sono un coniglio. Dopotutto che mi può succedere? Magari i comunisti mangiano i bambini, ma io sono un piacente ventenne. Ho pure tutti i miei capelli e un girovita d'invidiabile snellezza.
Arriviamo al bar. Beh, almeno esiste veramente.
Ci sediamo a un tavolino e prendiamo da mangiare. Io prendo la birra. La mia preferita un cazzo! E' una merda di Peroni che non sa di una sega. Sto per dirgli qualcosa su quello che mi diceva prima, sulla mia birra preferita (che peraltro è la Birra Menabrea), quando mi accorgo che in quel locale stanno tutti bevendo acqua.
E tutti si conoscono.
E tutti si qualificano come studenti.
E tutti parlano a bassa voce.
E tutti sono educati, ordinati e ci sorridono.

Una goccia di sudore mi si congela a metà della spina dorsale.

Devo fare qualcosa, ma che cosa? Se fossi circondato da nazi saprei cosa fare: una testata in faccia al più vicino e cercare di arrivare alla porta intero. In alternativa raggomitolarsi a terra e proteggere con braccia e gambe gli organi vitali dall'inevitabile.
Ma qui? Come uscire dignitosamente da questa situazione?
Intanto alcuni "amici" si avvicinano e gli dicono parole che non capisco.
Mi sembra di essere in un B-movie anni 50. Sento il rumore dei baccelli in lontananza.
Lei sta per parlarmi, io so già cosa sta per dirmi. "Mi accompagneresti un attimo in sede prima di tornare in università? Devo prendere alcune cose da portare".
Da portare dove? penso io. Perché non completate mai le frasi? Massì. Ti accompagno, che mi fotte a me? Ho già capito che non c'è da puciare biscotti in una tazza vuota.
Un pò mi rode, ma succede. Però cheppalle.
"Vabbè, dai. Andiamo". Dico. Il tono era quello di Robespierre che s'incammina verso la ghigliottina.
Entriamo nella sede e ci viene incontro il capitano dell'astronave Borg. No, dai le citazioni dei cattivi di Star Trek le evito.
Entriamo nella sede e ci viene incontro un tipo (il compagno presidente?) che poteva avere tra i 20 e i 40 anni, riga di lato e capelli che sembrano finti. Carnagione di nessun colore. Occhi di nessun colore. Completo beige, camicia bianca e cravatta marrone.
Mi stringe la mano.
Oddio, "stringe la mano" è un termine un po' forte. Mi porge una mano, io la stringo, e sento una consistenza molle.

Diodundio!!! non sopporto quelli che ti danno la mano molle!
Mi viene subito voglia di strappargli un braccio, levare il mollame e metterci dentro una merda di cane, per aumentarne la consistenza.
La mano molle è un discrimine.
Se dai la mano così non ti voglio vedere, non ti voglio conoscere, non parlare con me, non abbiamo niente da dirci, stammi lontano.
Ma soprattutto non stringermi la mano.
Dimmi ciao, dimmi vaffanculo, ma non voglio toccare la tua fottuta mano.

Compagno Manomolle mi dice ciao e mi comincia a parlare delle loro attività e convegni. Io dopo 2 secondi sento solo un brusio indistinto come di milioni di mosche.
Fatico a respirare e tengo sempre d'occhio l'uscita.
Gli alieni sono infidi, io mi faccio una mappa mentale 3D in wireframe del posto e calcolo tempi di fuga, percorsi ottimali e possibili alternative per raggiungere il caldo abbraccio del cielo di Milano.
La tipa mi dice se gli do una mano a portare un paio di pacchi in macchina.
Cheppalle, penso io. Vabbè.
Mi danno sti due pacchi. Sono un centinaio di copie dell'ultimo numero di Lotta Comunista.
E portiamole in macchina, va.
Arrivati alla macchina manomolle e la tipa mi dicono che mi danno uno strappo al politecnico.
Io andrei a piedi, anche su una gamba sola, anche sui gomiti, pur di levarmi dalle palle. Cerco però di non essere cafone. Loro sono tanto gentili ed educati.
Comunque negli armadi aperti non ho visto nessun baccello.
C'erano molti armadi chiusi, però.
Salgo in macchina.
Chissà perché mi vengono in mente quelle scene da film horror, dove vedi l'innocente fanciulla che entra nella stanza buia: cazzo, vedi dei lampi di luce sotto la porta, senti dei rumori da dentro, hai un brivido che ti corre lungo la schiena, non hai il fisico da linea di difesa degli All Blacks e che cosa pensi? Apro la porta. Chissà che cosa c'è dietro. Mavaffanculo. Te lo meriti lo zombie che ti succhia il cervello.
Io faccio lo stesso.
Salgo in macchina con gli ultracorpi che mi sorridono educati.
Sono un pirla, e per ciò pago.
Arriviamo in Via Porpora. E' un giro lungo per arrivare al Politecnico. Cioè, devi andare proprio in direzione opposta.
Mantengo la calma.
Dignità.
Non me ne andrò senza combattere.
Ci fermiamo davanti a un condominio.
La tipa si gira e, con due occhioni da cerbiatta che in confronto Bambi sembrava una belva assetata di sangue, mi chiede se gli do una mano a portare su i pacchi.
Io non ne posso più.
E facciamoci quest'ultima.
Dignità, mi raccomando.
Sta tutto per finire.
Avranno una sede nel palazzo, se non ci sono baccelloni neanche qui sono salvo.
Il condominio è una delle tante case popolari costruite nel dopoguerra a Lambrooklyn.
Naturalmente ascensori un cazzo.
Arriviamo all'ultimo piano.
Io tiro un respiro. Un po' per i 6 piani di scale, un po' perché vedo la luce alla fine del tunnel.
Manomolle non tira fuori la chiave dell'appartamento.
Suona il campanello.
Io mi perplimo.
"Chi è?" domanda una flebile voce d'ottuagenaria dall'interno dell'appartamento.
"Siamo di Lotta Comunista, signora. Stiamo distribuendo il giornale".
Cazzocazzocazzocazzocazzoczz!!! C! A! Z! Z! O!
Come i testimoni di geova!!!
Sono in cima a un pianerottolo con 150 copie di Lotta Comunista, mentre Bambi e Manomolle rompono i coglioni da quei testimoni di geova del comunismo che sono!!!
Ma.
C'è un ma.
Io sono li con loro.
Scoreggio, così, per sciogliere la tensione. E magari per scomparire in una nuvoletta giallastra.
"andate via!" risponde preoccupata la flebile voce dall'interno.
Io sono li, mentre suonano un altro campanello.

Dignità.

Dignità un cazzo! Quando è troppo è troppo.
Scusa” dico con le mie ultime forze a Manomolle “scendo un attimo al bar qua sotto che devo pisciare, tieni le copie del giornale”.
Ah, non puoi aspettare alla fine del giro?” dice Manomolle.
Purtroppo no, sai, la birra di prima…”.
Va bene, noi andiamo avanti, ci raggiungi poi qualche piano sotto”.
Tranquillo! Voi continuate pure!”.

Faccio le rampe di scale saltando 10 gradini alla volta, quasi sradico un vaso di gerani che mi occupa inopinatamente la traiettoria, piombo al terreno, apro il cancello e il traffico milanese mi accoglie rumoroso e festante.
Mai il cielo di Milano mi era sembrato così azzurro.
Mai lo smog così dolce e frizzante.
Respiro.
Il baccello non ha completato il processo di clonazione.
Sono fuggito, e la dignità l’ho lasciata su qualche pianerottolo di Via Porpora.

Ma, vaffanculo, sono vivo!

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