Figure di merda con le persone famose che mi hanno conosciuto: Jello Biafra

 

Siccome ieri era il compleanni di Biafra, nato il diciassette giugno del cinquantotto, come regalo di compleanno voglio ricordargli la sera che mi ha conosciuto.
A puro intento decorativo del post allego come immagine il poster serigrafato che feci io e stampò Marcelo giusto 10 anni fa.
Here we go.


Sono a San Francisco da due giorni (cioè, ora sono a Milano, ma la narrazione dei fatti di allora la faccio al presente, così, per confondere le idee), l'agosto agosta e per le strade di Frisco (come la chiamano solo gli italiani) tira un venticello freddo.

All'interno del Lucky 13, simpatico locale rock'n'roll che serve cocktail mignon ma ha un juke box con Motorhead, Clash, Damned, Cramps e di tutto e di più, mi trovo con:
Chuck Sperry e Ron Donovan: poster artists della Firehouse Kustom Rock Art Co.
Alan Forbes: Pittore, poster artist, disegnatore, dorme per terra in uno stanzone pieno di vapori di vernici.
Nancy: la donna di Chuck, lontani trascorsi di attaccabrighe all'interno della scena punk della baia che gli hanno valso il soprannome di Queen Aggro.
Serena: 25enne piacentina, amante dei giovani alternativi e ribelli baffuti ma con un orrenda passione per l'indie rock e l'emo più scartavetracoglioni.
Guasco: all’epoca paffuto e tatuato cantante guttural dei Cain nonchè negoziante di dischi (brutti), tipico esempio di ragazzo di strada come quello della canzone anni 60 rifatta da Ivan Cattaneo.
David: ex hippie ed ex punk dall'età indefinita (presumo 40-90), autista di limousine e creatore di siti web con enorme passione per la ganjia.
Manca solo Winston Smith.

La serata procede tra chiacchierate e variegato consumo alcolico, finchè Chuck mi chiede se voglio andare con lui da Jello Biafra tra una mezzora.
Chuck deve fare la copertina e il poster del CD spoken word che Biafra sta preparando.
Jello l'ho già incontrato 2 o 3 volte, ma in totale non ci ho mai parlato più di 5 parole per volta. Quindi gli dico occhei.
Intanto mi avvio con gli altri all'esterno del locale per fumare una paglia, perchè come tutti dovrebbero sapere, in califoggia non puoi bere alcolici fuori dai locali ma non puoi fumare dentro.
Tra una cazzata e l'altra, ad un certo punto David estrae un barattolo di medicinale per alleviare i dolori causati dalle cure per i malati di cancro e coadiuvante per il rilassamento del nervo ottico. Insomma, quella.
Genere "blueberry".
Io, che ritengo maleducazione dire "grazie, no", mi faccio partecipe del consumo collettivo, mediante inalazione dei prodotti di combustione, di questo prodotto naturale.
Diversamente da quello che gira nelle piazze italiane, la flora americana in questione è satura di resina. Nel senso che se la tiri contro un muro rimane attaccata.
Se la "Mendocino gold" è la gloria del nord California, la "Blueberry" è una versione modificata e pregna di thc.
Io, abituato alla paglia secca di Milano, che ti lascia allegro per un'oretta e che prima di dormire ti concilia il sonno, suggo il prodotto di combustione con sfrontata arroganza, come se mi trovassi in un parco meneghino.
Per una mezz'ora sono particolarmente allegro e simpatico.
Per le seguenti 4 ore ho la consistenza e le funzioni cerebrali di quei lumaconi rossi che vengono fuori nei prati dopo la pioggia.
Nel pieno del marasma cerebrale, Chuck mi avverte che dobbiamo andare subito da Jello. E David ci accompagna con la limousine.
Li imploro di fermarci in un bar, ho la salivazione azzerata e il cotone nel cervello.
DEVO bermi un mezzo litro di caffè.
Una volta fermati prendo il mio bicchierone di caffè e ci riavviamo. Purtroppo il caffè americano non è il nostro espresso e, sebbene capace di rimettere in moto le ghiandole salivari, al cotone che fodera il mio cranio gli fa una ricca sega.
Arriviamo a casa di Jello. E' una villetta su due piani, su una strada con pendenza himalayana, su una collina di SF. Dall'esterno sembra una villetta normale, ma all'interno sembra un incubo di un muratore bergamasco con manie di grandezza: scalone a chiocciola in stile barocco brianzolo, pareti in finta pietra a vista fino a due metri di altezza e poi tappezzeria e legno.
Jello è seduto sul divano, davanti a un tavolo pieno di appunti, ritagli di giornale e tutto il materiale che gli serve per preparare i suoi spoken word, con un pigiamino con pantaloni lilla e maglietta con orsetti (o trenini, oppure paperelle, non ricordo bene) e sta finendo di cenare. Per fortuna non siamo arrivati prima, perchè i resti di cibo che macchiano il piatto non mi consentono di distinguere se sia sugo di pomodoro o marmellata.
Magari entrambe.
Meglio non sapere.
L'ex cantante dei Dead Kennedy's nonchè ex candidato sindaco alla città di San Francisco ci invita a sedere.
Chuck si siede sul divano, vicino a Jello, per parlare di lavoro. David, furbamente, resta in piedi, vantando un lavoro che lo fa stare seduto tutto il giorno. Io, che sono stonato come un cammello, mi avvio verso una sedia-poltrona-sdraio anni 70 con struttura d'acciaio e copertura in tela.
Memore dei film di Fantozzi e della precarietà statica del design poltronistico anni 70 e conscio del mio stato psicofisico, declino l'ivito alla seduta.
(“grazie giello, come avessi accettato!” penso nel mio cervello ovattato)
Ma Jello mi indica la poltrona, e Chuck, improvvisamente conscio del mio stato, mi lancia uno sguardo come a dire "don't make me do figures of shit" (è americano, quindi non può dire "non farmi fare figure di merda", si limita a pensarlo nel suo idioma).
Io chino il capo e, conscio dell'ineluttabilità del mio destino, mi avvio verso l'arnese che sembra già ridere di me.
La poltrona è una di quelle che ti costringono a sedere semiribaltato e insaccato dentro il telo. Io, che sono messo come sono, penso che tenere la schiena in posizione verticale sia la cosa migliore per rimanere appena cosciente.
Inoltre, bere il caffè con la schiena all'indietro aumenta la possibilità di sbrodolarsi.
Decido così di sedermi sul bordo della poltrona.
Il coefficiente di attrito tra le gambe di una poltrona in acciaio leggero e un pavimento in palchè (si scriverebbe parquet) è uno dei più bassi esistenti. Se facessero le strade in parquet, o palchè, e le auto con le ruote d'acciaio, si farebbero migliaia di kilometri con un litro di benzina.
Appena il mio non indifferente peso si scarica dalle mie gambe alla poltrona, dato anche l'innaturale angolo di incidenza da me imposto, l'inanimato oggetto schizza immantinente all'indietro piroettando su se stesso e inondando del suo fragore l'innaturale silenzio venutosi a creare.
Nel frattempo, come una moviola che evidenzia inopugnatamente il tuo fallo da espulsione dentro l'area di rigore, mentre con un gesto delle braccia sembri dire all'arbitro "chi, io?", vedo al ralenty la mia caduta.
La schiena che si flette all'indietro, il culo che piomba verso il basso, un braccio che annaspa nel vuoto, l'altro che regge il bicchierone di caffè, le gambe come due inutili orpelli non più in grado di riacquistare una posizione verticale.
I miei occhi esprimono la disperazione e la rassegnazione al fato che mi attende. Negli interminabili decimi di secondo che precedono l'impatto vedo lo sguardo terrorizzato di Chuck che maledice il momento in cui ha deciso di portarsi dietro un italiano imbecille. Vedo lo sguardo attonito di Jello che si pente di aver fatto entrare un bollito in casa. Vedo lo sguardo rapito di David che, essendo anche lui stonato, sembra ammirare la plasticità laocoontea del gesto e l'assurdità delle dinamiche in essere e in divenire.
Nell'impatto con il suolo il mio orgoglio schizza sottoterra, mentre verso il cielo quello che schizza è uno tsunami marrone, in seguito a una legge fisica ineluttabile di azione e reazione non priva di una abbondante dose di comicità, che si solleva dal mio bicchierone di caffè come un armageddeon di macinato forte.
Sul tavolino di vetro, fogli e foglietti di appunti, ritagli di giornale, fotografie e vignette, pile di riviste, osservano la loro fine come i soldati egiziani osservavano il mar rosso richiudersi su di loro.
Un'attimo dopo schizzi di liquido marrone li ricoprono fumanti.
Qualche goccia, addirittura, scevra del minimo senso cromatico, si appone come una medaglia marrone sul pigiamino lilla.
In un silenzio irreale tutti mi guardano appallottolato sul pavimento mentre lecco il caffè che mi bollenta la mano.

Lontano un cane ulula.
Nella stanza una mosca timida interrompe il suo volo.

Io penso che sarebbe stato meglio tornare a casa con il Guasco, Nancy e Serena, a farmi le canne in cucina, con un caffè sul tavolo e un burrito nel piatto.
Anche Chuck, scommetto, sta pensando la stessa cosa.
Jello non sa che sarei potuto essere là, ma sapendolo pure lui l'avrebbe pensato, però non lo sa e pensa solo a settimane di appunti su foglietti azzurrini ora a macchie di caffè. Pensa alle riviste con le pagine appiccicate. Pensa al ritaglio di giornale sulla deforestazione devastato da un napalm marrone.
David non dice niente e se pensa qualcosa non lo da a vedere.
Per fortuna che sono stonato, se no non ce la farei a sopportare tutto questo sordo pensare inespresso.
E allora, cercando inutilmente di pulire qualche macchia dal piano vetroso, abbasso lo sguardo e vedo dove si adagia la mia tazza e il grosso del caffè: su un grosso tappeto sintetico di lunghi peli bianchi.
Bofonchio un "eschius me, Giello!", vado nel suo cesso e mi impicco allo sciacquone.

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