Ricomincia il diario boliviano: ora siamo tra La Paz e Oruru.
Ho già ricevuto, oltre a questa puntata, un'altra successiva, che sarà postata domani.
Aggiungo, perché qualcuno me l'ha chiesto, una spiegazione a queste introduzioni, dato che non aggiungono nulla a quanto scritto dall'autrice: essendo il blog mio ed essendo la maggior parte dei testi miei, mi sembra che pubblicare cose altrui debba in qualche modo essere differenziato dai post normali.
Questo anche perché, con i post miei che sto preparando, non vorrei che chi legge andasse in confusione...
In Bolivia si parte presto
Saturday, 13 Sep 2003 18:19:50
In Bolivia si parte presto. perché non si sa se e come e quando si arriva.
Ho lasciato La Paz, per andare verso l’interno, verso il confine con il Cile, per la precisione ad Oruro.
Ho lasciato La Paz alle 5.30 del mattino, con un buio che da noi, causa lampioni in ogni dove, non c’è più.
Mi hanno portata avvolta come un fagotto (5 gradi sotto zero), alla Terminal degli autobus. Sorpresa: la struttura è stata costruita dal Sig. Eifell. ed in effetti quest’aria urbana e moderna, sfacciamente europea, stride con quello che incontro appena entro per cercare di comprarmi un biglietto... Io e qualche decina di indigeni, avvolti nelle loro umili coperte. Sono ancora tutti al suolo.
Nelle stazioni esistono diverse compagnie di viaggio. Quando sono arrivata io non tutte erano aperte e quelle poche erano "sponsorizzate" da degli strillonti instancabili, dagli occhi neri come il carbone, che invitavano: Oruro, Oruro,Oruro. Oppure Cochabamba o Santa Cruz.
La compagnia con cui dovrei andare io è ancora chiusa e quindi pazientemente mi accampo.
Io. E contadini che stanno partendo per andare chissà dove. Famiglie che si stringono in coperte pulciose. Che hanno solo il caldo della loro unione, ed al seguito un fagotto più grande di me ed una bombola a gas(?).
Io, con il mio piumotto, batto i denti. Mi sento un pò impaurita e fuori luogo. So che il mio viaggio è abbastanza precario. Nel senso che nella strada tra La Paz e Oruro ci sono due problemi: i "bloqueos" e i possibili assalti dei cocaleros.
I Bolqueos sono blocchi stradali organizzati dai contadini che non condividono la politica del governo. Si piantano in mezzo alla strada, e - mi è stato spiegato - non si tolgono di lì fino a che qualche autorità non arriva a trattare (o dare l’illusione di trattare, mi permetto di dire io).
Io dovrei arrivare ad Oruro per le 10, perché "qualcuno" (ah, l’organizzazione sudamericana...) mi aspetta e da lì inizia un programma di lavoro intensivo.
Ma i miei amici mi hanno spiegato di non farmi troppe illusioni, e di munirmi di molta acqua e cibo: se mi imbatto in un bloqueo... me ne resto ore, quando non almeno due giorni, al freddo e nel mezzo delle montagne.
I cocaleros fanno una cosa simile, "sequestrano" il bus fino a che qualcuno non viene a trattare.
Con queste premesse me ne sto accoccolata nella stazione a 4000 metri, attendendo che un fatiscente baracchino della sedicente compagnia "nobleza" (nobiltà...) apra.
Gli indigeni sono saggi. E sono pure di gran cuore. Uno si deve rendere conto che sto tremando, e che ho una fame indicibile. Mi offre un pezzo della sua coperta, un boccone di qualcosa non meglio identificato e, da uno zainone deforme estrae uno dei tipici cappellini (quelli a punta con i lama disegnati per intenderci) e me lo cala in testa. Penso di non aver preso le pulci. Di sicuro mi sono sentita meglio.
Finalmente apre il mio baracchino, contratto il biglietto e mi dirigo al mio mezzo... io, con delle contadine che parlano per metà quecua e per metà spagnolo. Ci si aiuta a vicenda a stipare questo carro multicolore, ricoperto di scritte tipo "Gesù ti ama", "Non corriamo troppo", "Non e’ mai tardi"...
In situazioni normali della mia vita, penso che mi impressionerebbe stare ammonticchiata con persone dall’odore quanto meno discutibile (...rimango una bimba viziata), con il freddo che fa e questa tensione serpeggiante, ma qui sono semplicemente grata del calore umano.
Si parte, lenti ed ondeggianti come dopo una bevuta eccessiva... e questo rollio ci fa addormentare. Una massa umana colorata: quasi non importa più che io non sia boliviana.
Ad un tratto si blocca l’autobus. è immediato: tutti ci svegliamo terrorizzati, pensando che sia arrivato il momento del blocco o del sequestro. Invece, grazie al cielo... sono lavori in corso e una venditrice di spermuta di mele e quinua (in una borsina di plastica del 15-18). Ci penso un attimo... l’infezione di stomaco, i chili persi... forse non è opportuno. Non importa. Già il mio vicino mi ha comprato una borsina. Chiudo gli occhi, spero in bene e mi bevo la poltiglia giallognola.
Si riparte. Ci si riaddormenta. e ci si sveglia per un altro piccolo blocco nell’altipiano. Siamo sempre a 3.600 metri, ma qui è tutto piano, spazzato da un vento eterno ed implacabile... giallo e verde, come oro che si illumina di un’alba pallida.
Ci fermano per un pò, ma a livello nazionale ci sono trattative, per cui ci lasciano andare.
Ed ecco che appare Oruro: strade sterrate, per ben più della metà, case basse e di mattoni grezzi. La Paz, al confronto, sembra Las Vegas. Oruro è circondata da quattro monti: la vipera, la formica, il condor e il rospo. Questa armata animale tentò di attaccare Oruro, ma la Vergine del Socavon tagliò la testa alla vipera, schiacciò la formica, isolò con della sabbia il rospo e si alleò con il condor, che ora protegge la città.
Dentro quei monti ci stanno il paradiso e l’inferno. Le miniere. Che son state sfruttate dai tempi della conquista spagnola. sono ancora in attività, avrebbero ancora vene sfruttabili, ma il governo non è molto interessato (qui quel che va per la maggiore è la cocaina)... Oururo, scoprirò più tardi, si basa su un’altra economia.
In ogni caso incontro la signora che mi deve aspettare: Edda, giudice della corte suprema di Oruro.
MI porta a casa sua....mi ospiterà lì insieme alle sue tre figlie: una casa che da noi non sarebbe abitabile, ma che qui mi offrono con tutta la gentilezza del mondo. Con un freddo spaventoso, senza riscaldamento (qui NON esiste), con la luce che viene e che va e senza acqua calda. Per Edda è la sua reggia e come ad una regina in visita me la offre...
Edda ha un cuore grande così, che palpita coraggioso sotto ad un immenso quadro del Che, che qui è un eroe nazionale (non ho ancora trovato case che non ce l’abbiano appeso in qualche forma o muri senza almeno un graffito che lo rappresenta).
Mi offrono formaggio, pane rustico e frutti sconosciuti da noi (granadillas e tumbos): il mio stomaco ormai accetta tutto. Anche perchè ho perso ancora peso.
E poi, al volo, si parte per l’Università Tecnica di Oruro: tutto il partito comunista boliviano si è formato qui. L’Università di Milano dovrebbe stringere un accordo con la UTO, perchè qualcuno da qui possa venire a studiare in Italia. Mi accolgono come un’eroina... riprendono la mia stretta di mano con il rettore e mi offrono the di coca, che comunque non placa il freddo.
Di corsa alla Tv. Qui ogni università ha una sua radio ed una tv: ed è qui che nasce l’opposizione del Paese. Un’ora di intervista, mentre io sono ancora frastornata. Ma negli occhi dell’intervistatore vedo la gioia e lo stupore di poter trattare temi come la sparizione forzata di persone con un’europea... vuole dire che anche noi sappiamo? che non li abbiamo dimenticati?
Sussurro che no.
E lui si illumina in un sorriso senza limiti.
Esco e mi aspettano, quasi in una brutta copia di un film su certe cooperative degli anni d’oro sovietici, dei rappresentanti del sindacato dei minatori, delle donne vedove di minatori, del locale partito comunista, dei famigliari degli scomparsi e degli ex torturati.
Mi accolgono come una regina: tutti vogliono raccontarmi la loro storia, stringermi la mano, vedere il mio sorriso (notare il controsenso...). Un pranzo rapido (cose che non so cosa diavolo siano) e poi una conferenza che diviene una tavola rotonda. Mi sommergono di domande e per la prima volta in vita mia, sento il mio lavoro utile. Spiego loro come fare a ricorrere alla Corte Interamericana, cosa devono imporre al governo per la sentenza Trujllo e loro prendono appunti, e mi guardano come qualcuno che beva la prima goccia d’acqua dopo aver attraversato il deserto. Lo faranno, eccome se lo faranno... solo che nessuno gli aveva parlato di queste possibilità prima... finisce la tavola rotonda e mi portano nella locanda storica del Paese, posseduta da un turco, dove tutti gli scioperi, le insurrezioni, le ribellioni contro la dittatura sono stati decisi. Mentre mi immergo nel caffè, ed un signore 70enne mi mostra in carne viva i segni che gli ha lasciato la tortura (ho avuto un conato di vomito, lo ammetto), gli avventori della locanda ammattiscono per il miracolo calcistico... Bolivia 4 - colombia 0.
e’ poco, ma da queste parti e’ sufficiente per tramortirsi di gioia.
Sta per imbrunire, mi alzo un pò deboluccia e inizio l’ascesa al monte del Socavon. La cosa più assurda che abbia mai visto. Una chiesa. Che per il carnevale vede migliaia di persone travestite da diavolo che si inginocchiano e fanno il giro della Chiesa salutando la vergine (in realtà questo è stato introdotto in tempo di dominazione spagnola per rappresentare gli indios e la propria cultura che si umiliano in ginocchio di fronte al cattolicesiomo ed alla potenza coloniale spagnola, riconoscendola come superiore). Sono strane le chiese qui: coloniali, ma con accenni del tutto pagani.
Giro il perimetro e... al fondo c’è un buco, che scende nelle viscere della terra e da cui esala un puzzo di miniera nauseabondo.
Sarebbe chiuso, ma per intercessione di Eda e della compañera Marta il minatore preposto all’entrata, mi calca in testa il suo casco e mi lascia entrare.
Da una chiesa si entra alla miniera. Già questo sarebbe strano... ma non basta. Si scende sempre più e mi spiegano che questo è SOLO il livello 40, ma che si arriva almeno altri 100 livelli sotto. Qui non si è più attivi, ma poco più in la si. e poco più in la sono morti 2 minatori la settimana scorsa.
Un minatore lavora 14 ore al giorno, per 70 dollari al mese e senza sicurezza sociale. Ma lo fa, perché... sa che ogni giorno può essere l’ultimo e quindi strizza la sua schifosa palla di foglie di coca e cenere in bocca, socchiude gli occhi, e continua a scendere nelle viscere della terra, dove il calore si fa mano a mano insopportabile ed io devo dimenticarmi la claustrofobia.
Ad un tratto, nel mezzo del tunnel appare un’imponente fantoccio, che per poco non mi fa prendere un infarto... E’ il TIO de LAS MINAS... Satana. Si, da una chiesa si scende alla statua del diavolo. Che è adorata quanto quella della Madonna al piano superiore (svariati piani superiori, io credo e, per parte dei minatori... decisamente PIU’ adorata). E’ circondato da offerte: sigarette, foglie di coca ed alcool. Anche io fumo e gli lascio finire la mia sigaretta, con grande approvazione del minatore che mi accompagna: il TIO è il loro protettore. Nessuno entra in miniera senza avergli chiesto protezione prima.
Io sono sempre più colpita, ma seguo ed ascolto i suoi racconti, i suoi problemi.
Ad un tratto chiedo di tornare indietro, perché non respiro più. Lui mi assiste subito e ride di un riso amaro... in Italia non è così l’aria, vero? Annuisco e vorrei dirgli che nemmeno nella piazza più congestionata di Milano all’ora di punta, il puzzo dell’aria è simile...
Ma già lo devo salutare, restituirgli il suo caschetto, augurandogli come di costume "suerte", mentre so benissimo che morirà fra poco di quache pestilenziale malattia ai polmoni... a prescindere dal suo Tio e dalla sua Vergine.
le mie due accompagnatrici confabulano un pò tra loro, mi fanno calare al mercato (TUTTO CONTRABBANDO), dove vengo fissata come una marziana (qui i turisti vengono solo per il carnevale, che è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO) dai venditori.
Arriva un altro "compañero" con la macchina, mi fanno salire. Mi raccomandano di tenere alzata in viso la sciarpa (con il freddo che fa non potrei comunque fare altrimenti...) e di chiudere la sicura della porta. Mi allarmo un pò: dova diavolo si va?
Al sud della città, verso il Cile. Noi, camion immensi, strade deserte, senza luce, con buche più grandi di me... Case di una povertà che forse solo in India avevo visto. Si viaggia in silenzio. Alla luce della luna. Ad un tratto si fissano i miei accompagnatori e decidono di spiegarmi. Quei camion: tutto narcotraffico. Si porta coca in Cile e si porta dentro merce di contrabbando. Dietro quelle umili facciate di casa, ci sono due possibilità: o piscine (si, i capi del narcotraffico hanno la piscina... non so che caspita se ne facciano a 3.600 metri, ma tant’è) o stanze piene di macchine rubate. Io non capisco... come fa una macchina a passare da porte dove nemmeno io con la mia nuova linea magrolina passerei? Semplice: i muri si ditruggono e ricostruiscono in una sola notte...
La sciarpa in viso e le sicure calate, sono dovute al fatto che questa è terra di nessuno. Tutti sanno cosa succede qui. Anche la polizia, che è corrotta. Gli unici due poliziotti che sono entrati... li hanno fatti fuori (un mese fa), e nessuno sa cosa sia successo o meglio dice di sapere cosa è successo...
Giriamo un pò, in un’atmosfera folle di tensione.
Poi la serata: altri racconti, altre testimonianze. Ascolto tutto, mangio tutto, ho un freddo che non avevo mai provato prima. Ma vale la pena sentire i problemi della gente di qui: lo sciopero della fame dei contadini, i cocaleros, il gas che hanno scoperto. La repressione del governo. 2 contadini la settimana scorsa, 35 civili in febbraio: uccisi dall’esercito, nessun colpevole apparentemente.
Qui nessuno ha niente, ma mi stanno dando tutto quel niente.
Il giorno a seguire: due conferenze e tre interviste in tv.
Gli studenti entusiasti, che hanno deciso di chiedermi come fare a ricercare sulla Corte interamericana, i parenti di una scomparsa forzosamente che non smettono di ringraziarmi per la speranza, una ricercatrice che mi dice che finalmente ha deciso su cosa ricercare. I sindacalisti che si organizzano per ottenere la ratifica della convenzione che gli ho indicato.
Mangio poco e mi sento debole, ma la forza della speranza che vedo in queste persone mi tiene in piedi. Ad un tratto non posso tenere le lacrime: hanno fatto incidere un piattino di argento per me (brutto, se devo essere onesta), dicendo che lotteremo insieme fino a che non saranno trovati anche i resti dell’ultimo scomparso e punito l’ultimo responsabile.
Non so se sarà così. Non lo so davvero. Ma SO che VOGLIO provarci. E non sono sola...
La mattina seguente si parte per tornare a La Paz. Sempre alle 5.30.
Perchè in Bolivia si parte presto... Non si sa quando e dove si arriva.
Ma, ribadisco... questo è un Paese in viaggio... e io con lui.
Ho già ricevuto, oltre a questa puntata, un'altra successiva, che sarà postata domani.
Aggiungo, perché qualcuno me l'ha chiesto, una spiegazione a queste introduzioni, dato che non aggiungono nulla a quanto scritto dall'autrice: essendo il blog mio ed essendo la maggior parte dei testi miei, mi sembra che pubblicare cose altrui debba in qualche modo essere differenziato dai post normali.
Questo anche perché, con i post miei che sto preparando, non vorrei che chi legge andasse in confusione...
In Bolivia si parte presto
Saturday, 13 Sep 2003 18:19:50
In Bolivia si parte presto. perché non si sa se e come e quando si arriva.
Ho lasciato La Paz, per andare verso l’interno, verso il confine con il Cile, per la precisione ad Oruro.
Ho lasciato La Paz alle 5.30 del mattino, con un buio che da noi, causa lampioni in ogni dove, non c’è più.
Mi hanno portata avvolta come un fagotto (5 gradi sotto zero), alla Terminal degli autobus. Sorpresa: la struttura è stata costruita dal Sig. Eifell. ed in effetti quest’aria urbana e moderna, sfacciamente europea, stride con quello che incontro appena entro per cercare di comprarmi un biglietto... Io e qualche decina di indigeni, avvolti nelle loro umili coperte. Sono ancora tutti al suolo.
Nelle stazioni esistono diverse compagnie di viaggio. Quando sono arrivata io non tutte erano aperte e quelle poche erano "sponsorizzate" da degli strillonti instancabili, dagli occhi neri come il carbone, che invitavano: Oruro, Oruro,Oruro. Oppure Cochabamba o Santa Cruz.
La compagnia con cui dovrei andare io è ancora chiusa e quindi pazientemente mi accampo.
Io. E contadini che stanno partendo per andare chissà dove. Famiglie che si stringono in coperte pulciose. Che hanno solo il caldo della loro unione, ed al seguito un fagotto più grande di me ed una bombola a gas(?).
Io, con il mio piumotto, batto i denti. Mi sento un pò impaurita e fuori luogo. So che il mio viaggio è abbastanza precario. Nel senso che nella strada tra La Paz e Oruro ci sono due problemi: i "bloqueos" e i possibili assalti dei cocaleros.
I Bolqueos sono blocchi stradali organizzati dai contadini che non condividono la politica del governo. Si piantano in mezzo alla strada, e - mi è stato spiegato - non si tolgono di lì fino a che qualche autorità non arriva a trattare (o dare l’illusione di trattare, mi permetto di dire io).
Io dovrei arrivare ad Oruro per le 10, perché "qualcuno" (ah, l’organizzazione sudamericana...) mi aspetta e da lì inizia un programma di lavoro intensivo.
Ma i miei amici mi hanno spiegato di non farmi troppe illusioni, e di munirmi di molta acqua e cibo: se mi imbatto in un bloqueo... me ne resto ore, quando non almeno due giorni, al freddo e nel mezzo delle montagne.
I cocaleros fanno una cosa simile, "sequestrano" il bus fino a che qualcuno non viene a trattare.
Con queste premesse me ne sto accoccolata nella stazione a 4000 metri, attendendo che un fatiscente baracchino della sedicente compagnia "nobleza" (nobiltà...) apra.
Gli indigeni sono saggi. E sono pure di gran cuore. Uno si deve rendere conto che sto tremando, e che ho una fame indicibile. Mi offre un pezzo della sua coperta, un boccone di qualcosa non meglio identificato e, da uno zainone deforme estrae uno dei tipici cappellini (quelli a punta con i lama disegnati per intenderci) e me lo cala in testa. Penso di non aver preso le pulci. Di sicuro mi sono sentita meglio.
Finalmente apre il mio baracchino, contratto il biglietto e mi dirigo al mio mezzo... io, con delle contadine che parlano per metà quecua e per metà spagnolo. Ci si aiuta a vicenda a stipare questo carro multicolore, ricoperto di scritte tipo "Gesù ti ama", "Non corriamo troppo", "Non e’ mai tardi"...
In situazioni normali della mia vita, penso che mi impressionerebbe stare ammonticchiata con persone dall’odore quanto meno discutibile (...rimango una bimba viziata), con il freddo che fa e questa tensione serpeggiante, ma qui sono semplicemente grata del calore umano.
Si parte, lenti ed ondeggianti come dopo una bevuta eccessiva... e questo rollio ci fa addormentare. Una massa umana colorata: quasi non importa più che io non sia boliviana.
Ad un tratto si blocca l’autobus. è immediato: tutti ci svegliamo terrorizzati, pensando che sia arrivato il momento del blocco o del sequestro. Invece, grazie al cielo... sono lavori in corso e una venditrice di spermuta di mele e quinua (in una borsina di plastica del 15-18). Ci penso un attimo... l’infezione di stomaco, i chili persi... forse non è opportuno. Non importa. Già il mio vicino mi ha comprato una borsina. Chiudo gli occhi, spero in bene e mi bevo la poltiglia giallognola.
Si riparte. Ci si riaddormenta. e ci si sveglia per un altro piccolo blocco nell’altipiano. Siamo sempre a 3.600 metri, ma qui è tutto piano, spazzato da un vento eterno ed implacabile... giallo e verde, come oro che si illumina di un’alba pallida.
Ci fermano per un pò, ma a livello nazionale ci sono trattative, per cui ci lasciano andare.
Ed ecco che appare Oruro: strade sterrate, per ben più della metà, case basse e di mattoni grezzi. La Paz, al confronto, sembra Las Vegas. Oruro è circondata da quattro monti: la vipera, la formica, il condor e il rospo. Questa armata animale tentò di attaccare Oruro, ma la Vergine del Socavon tagliò la testa alla vipera, schiacciò la formica, isolò con della sabbia il rospo e si alleò con il condor, che ora protegge la città.
Dentro quei monti ci stanno il paradiso e l’inferno. Le miniere. Che son state sfruttate dai tempi della conquista spagnola. sono ancora in attività, avrebbero ancora vene sfruttabili, ma il governo non è molto interessato (qui quel che va per la maggiore è la cocaina)... Oururo, scoprirò più tardi, si basa su un’altra economia.
In ogni caso incontro la signora che mi deve aspettare: Edda, giudice della corte suprema di Oruro.
MI porta a casa sua....mi ospiterà lì insieme alle sue tre figlie: una casa che da noi non sarebbe abitabile, ma che qui mi offrono con tutta la gentilezza del mondo. Con un freddo spaventoso, senza riscaldamento (qui NON esiste), con la luce che viene e che va e senza acqua calda. Per Edda è la sua reggia e come ad una regina in visita me la offre...
Edda ha un cuore grande così, che palpita coraggioso sotto ad un immenso quadro del Che, che qui è un eroe nazionale (non ho ancora trovato case che non ce l’abbiano appeso in qualche forma o muri senza almeno un graffito che lo rappresenta).
Mi offrono formaggio, pane rustico e frutti sconosciuti da noi (granadillas e tumbos): il mio stomaco ormai accetta tutto. Anche perchè ho perso ancora peso.
E poi, al volo, si parte per l’Università Tecnica di Oruro: tutto il partito comunista boliviano si è formato qui. L’Università di Milano dovrebbe stringere un accordo con la UTO, perchè qualcuno da qui possa venire a studiare in Italia. Mi accolgono come un’eroina... riprendono la mia stretta di mano con il rettore e mi offrono the di coca, che comunque non placa il freddo.
Di corsa alla Tv. Qui ogni università ha una sua radio ed una tv: ed è qui che nasce l’opposizione del Paese. Un’ora di intervista, mentre io sono ancora frastornata. Ma negli occhi dell’intervistatore vedo la gioia e lo stupore di poter trattare temi come la sparizione forzata di persone con un’europea... vuole dire che anche noi sappiamo? che non li abbiamo dimenticati?
Sussurro che no.
E lui si illumina in un sorriso senza limiti.
Esco e mi aspettano, quasi in una brutta copia di un film su certe cooperative degli anni d’oro sovietici, dei rappresentanti del sindacato dei minatori, delle donne vedove di minatori, del locale partito comunista, dei famigliari degli scomparsi e degli ex torturati.
Mi accolgono come una regina: tutti vogliono raccontarmi la loro storia, stringermi la mano, vedere il mio sorriso (notare il controsenso...). Un pranzo rapido (cose che non so cosa diavolo siano) e poi una conferenza che diviene una tavola rotonda. Mi sommergono di domande e per la prima volta in vita mia, sento il mio lavoro utile. Spiego loro come fare a ricorrere alla Corte Interamericana, cosa devono imporre al governo per la sentenza Trujllo e loro prendono appunti, e mi guardano come qualcuno che beva la prima goccia d’acqua dopo aver attraversato il deserto. Lo faranno, eccome se lo faranno... solo che nessuno gli aveva parlato di queste possibilità prima... finisce la tavola rotonda e mi portano nella locanda storica del Paese, posseduta da un turco, dove tutti gli scioperi, le insurrezioni, le ribellioni contro la dittatura sono stati decisi. Mentre mi immergo nel caffè, ed un signore 70enne mi mostra in carne viva i segni che gli ha lasciato la tortura (ho avuto un conato di vomito, lo ammetto), gli avventori della locanda ammattiscono per il miracolo calcistico... Bolivia 4 - colombia 0.
e’ poco, ma da queste parti e’ sufficiente per tramortirsi di gioia.
Sta per imbrunire, mi alzo un pò deboluccia e inizio l’ascesa al monte del Socavon. La cosa più assurda che abbia mai visto. Una chiesa. Che per il carnevale vede migliaia di persone travestite da diavolo che si inginocchiano e fanno il giro della Chiesa salutando la vergine (in realtà questo è stato introdotto in tempo di dominazione spagnola per rappresentare gli indios e la propria cultura che si umiliano in ginocchio di fronte al cattolicesiomo ed alla potenza coloniale spagnola, riconoscendola come superiore). Sono strane le chiese qui: coloniali, ma con accenni del tutto pagani.
Giro il perimetro e... al fondo c’è un buco, che scende nelle viscere della terra e da cui esala un puzzo di miniera nauseabondo.
Sarebbe chiuso, ma per intercessione di Eda e della compañera Marta il minatore preposto all’entrata, mi calca in testa il suo casco e mi lascia entrare.
Da una chiesa si entra alla miniera. Già questo sarebbe strano... ma non basta. Si scende sempre più e mi spiegano che questo è SOLO il livello 40, ma che si arriva almeno altri 100 livelli sotto. Qui non si è più attivi, ma poco più in la si. e poco più in la sono morti 2 minatori la settimana scorsa.
Un minatore lavora 14 ore al giorno, per 70 dollari al mese e senza sicurezza sociale. Ma lo fa, perché... sa che ogni giorno può essere l’ultimo e quindi strizza la sua schifosa palla di foglie di coca e cenere in bocca, socchiude gli occhi, e continua a scendere nelle viscere della terra, dove il calore si fa mano a mano insopportabile ed io devo dimenticarmi la claustrofobia.
Ad un tratto, nel mezzo del tunnel appare un’imponente fantoccio, che per poco non mi fa prendere un infarto... E’ il TIO de LAS MINAS... Satana. Si, da una chiesa si scende alla statua del diavolo. Che è adorata quanto quella della Madonna al piano superiore (svariati piani superiori, io credo e, per parte dei minatori... decisamente PIU’ adorata). E’ circondato da offerte: sigarette, foglie di coca ed alcool. Anche io fumo e gli lascio finire la mia sigaretta, con grande approvazione del minatore che mi accompagna: il TIO è il loro protettore. Nessuno entra in miniera senza avergli chiesto protezione prima.
Io sono sempre più colpita, ma seguo ed ascolto i suoi racconti, i suoi problemi.
Ad un tratto chiedo di tornare indietro, perché non respiro più. Lui mi assiste subito e ride di un riso amaro... in Italia non è così l’aria, vero? Annuisco e vorrei dirgli che nemmeno nella piazza più congestionata di Milano all’ora di punta, il puzzo dell’aria è simile...
Ma già lo devo salutare, restituirgli il suo caschetto, augurandogli come di costume "suerte", mentre so benissimo che morirà fra poco di quache pestilenziale malattia ai polmoni... a prescindere dal suo Tio e dalla sua Vergine.
le mie due accompagnatrici confabulano un pò tra loro, mi fanno calare al mercato (TUTTO CONTRABBANDO), dove vengo fissata come una marziana (qui i turisti vengono solo per il carnevale, che è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO) dai venditori.
Arriva un altro "compañero" con la macchina, mi fanno salire. Mi raccomandano di tenere alzata in viso la sciarpa (con il freddo che fa non potrei comunque fare altrimenti...) e di chiudere la sicura della porta. Mi allarmo un pò: dova diavolo si va?
Al sud della città, verso il Cile. Noi, camion immensi, strade deserte, senza luce, con buche più grandi di me... Case di una povertà che forse solo in India avevo visto. Si viaggia in silenzio. Alla luce della luna. Ad un tratto si fissano i miei accompagnatori e decidono di spiegarmi. Quei camion: tutto narcotraffico. Si porta coca in Cile e si porta dentro merce di contrabbando. Dietro quelle umili facciate di casa, ci sono due possibilità: o piscine (si, i capi del narcotraffico hanno la piscina... non so che caspita se ne facciano a 3.600 metri, ma tant’è) o stanze piene di macchine rubate. Io non capisco... come fa una macchina a passare da porte dove nemmeno io con la mia nuova linea magrolina passerei? Semplice: i muri si ditruggono e ricostruiscono in una sola notte...
La sciarpa in viso e le sicure calate, sono dovute al fatto che questa è terra di nessuno. Tutti sanno cosa succede qui. Anche la polizia, che è corrotta. Gli unici due poliziotti che sono entrati... li hanno fatti fuori (un mese fa), e nessuno sa cosa sia successo o meglio dice di sapere cosa è successo...
Giriamo un pò, in un’atmosfera folle di tensione.
Poi la serata: altri racconti, altre testimonianze. Ascolto tutto, mangio tutto, ho un freddo che non avevo mai provato prima. Ma vale la pena sentire i problemi della gente di qui: lo sciopero della fame dei contadini, i cocaleros, il gas che hanno scoperto. La repressione del governo. 2 contadini la settimana scorsa, 35 civili in febbraio: uccisi dall’esercito, nessun colpevole apparentemente.
Qui nessuno ha niente, ma mi stanno dando tutto quel niente.
Il giorno a seguire: due conferenze e tre interviste in tv.
Gli studenti entusiasti, che hanno deciso di chiedermi come fare a ricercare sulla Corte interamericana, i parenti di una scomparsa forzosamente che non smettono di ringraziarmi per la speranza, una ricercatrice che mi dice che finalmente ha deciso su cosa ricercare. I sindacalisti che si organizzano per ottenere la ratifica della convenzione che gli ho indicato.
Mangio poco e mi sento debole, ma la forza della speranza che vedo in queste persone mi tiene in piedi. Ad un tratto non posso tenere le lacrime: hanno fatto incidere un piattino di argento per me (brutto, se devo essere onesta), dicendo che lotteremo insieme fino a che non saranno trovati anche i resti dell’ultimo scomparso e punito l’ultimo responsabile.
Non so se sarà così. Non lo so davvero. Ma SO che VOGLIO provarci. E non sono sola...
La mattina seguente si parte per tornare a La Paz. Sempre alle 5.30.
Perchè in Bolivia si parte presto... Non si sa quando e dove si arriva.
Ma, ribadisco... questo è un Paese in viaggio... e io con lui.
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