Kortatu + Dirty Joy
C.S. Bernina - Milano - 11 gennaio 1987
Chissà perché i concerti che mi ricordo meglio sono sempre di gennaio o febbraio.
Se fossi un emokid potrei dire perché a gennaio ci sono meno giorni e quindi meno cose da ricordare, oppure perché l'inverno milanese cristallizza meglio i ricordi, o anche perché le notti di gennaio sono più buie e lunghe delle altre e ricordi meglio le cose che le hanno illuminate.
La realtà è che gennaio è un dito in culo che si agita a ricordarti che d'inverno, nella Milano del 1987, non succede un emerito cazzo.
Il Centro Sociale di Via Bernina era nato in uno dei tanti capannoni dismessi dell'epoca, in una di quelle vie dove non passa nessuno nella Bovisa pre-speculazione ediliza degli anni 90.
Probabilmente non se lo ricorda quasi nessuno, essendo stato occupato per un mese circa prima dell'intervento dei branchi cellularici di cani blu.
Era, diciamolo, un edificio di merda. Freddo siberiano + umidità perenne. Con il muschio che c'era sui muri sembrava di stare in un presepe. Solo, si sentiva l'assenza di bue & asinello, che avrebbero garantito un minimo comfort termico. La sala concerti era a forma di "L", per cui solo metà della gente riusciva a vedere i concerti. Non che ci fossero tutte 'ste serate... anche perché in un mese riesci appena ad organizzarti. Io me ne ricordo solo un paio.
Abitando a poche decine di metri da Piazza Firenze, per chi conosce la geografia milanese, sono sempre stato lontano da qualunque centro sociale all'ombra della madunina, ma per quel fottuto mese ero praticamente a casa. La Bovisa, infatti, comincia appena dopo la Ferrovia Nord, da Piazzale Lugano, a qualche centinaio di metri da casa mia.
La Bovisa, all'epoca, brulicava di capannoni dismessi. Era stato un quartiere di fabbriche, forse anche più di Lambrooklyn. Tagliata da un terrapieno ferroviario che porta a milano i treni da Torino e due ferrovie in trincea (Fs per la Stazione Garibaldi e Ferrovie Nord tra le stazioni di Bovisa e Bullona), attraversata da due vie principali (la circonvallazione di Viale Jenner e la parallela Viale Lancetti), chiusa a sud dalla stazione ferroviaria di Garibaldi e dalla dogana merci, a est dalla Via Valassina, l'Ospedale Maggiore e Via Farini, a nord dal terrapieno ferroviario che la separa dalla Bovisasca e Novate, a ovest dalla Ferrovia Nord che gli scava una trincea con il Portello, Piazza Prealpi, Villapizzone e Quarto Oggiaro.
Diversamente da altri quartieri e paesi "industriali", la Bovisa non aveva una Falk o una Breda, ma tante piccole e medie industrie. Dato l'espandersi della città, l'aumento del traffico, la sfavorevole congiuntura economica e tutti gli altri motivi classici di queste situazioni, le fabbriche chiusero, gli operai raus e tutti i capannoni rimasero vuoti ad aspettare di valere qualcosa come aree edificabili.
Mi accorgo che la digressione socio-geografica ci sta allontanando dal concerto di cui sopra, ma pazientate, ho quasi finito. Solo un'ultima battuta: secondo il piano regolatore di Milano le aree dismesse della Bovisa dovevano essere convertite in 50% edilizia residenziale, commerciale e terziario (cioè case, negozi e uffici) e 50% verde pubblico e servizi sociali (parchi, biblioteche, spazi sociali pubblici). Ora, chiunque passi per Via Lancetti, per la Bovisasca piuttosto che davanti al nuovo Politecnico e si ponga una domanda (dov'è il 50% verde e sociale?), ottiene un'ovvia e immaginabile risposta.
Io comunque la Bovisa l'avevo dietro casa. E finalmente avevo un centro sociale vicino a casa. Cazzarola, voglio fare una cosa che non ho fatto mai, provare l'emozione di andare a piedi da casa allo squat.
A gennaio, la sera, piove. Beh, magari non tutti gli anni ma, almeno quella sera, si.
La felpa dei Misfits fa il suo dovere, cioè ripararmi dalla pioggerellina gelata, fino, più o meno, a Piazzale Lugano. Da li in poi, per tutta Via Bodio e Lancetti fino all'incrocio con Via Bernina, l'umidità impone la sua tassa aprendosi la strada fino alle ossa.
Arrivo in Bernina, dove l'impianto termoautonomo, in mancanza dei succitati bove e ciucco, è costituito da un migliaio di persone stipate praticamente ovunque.
I primi a suonare sono i Dirty Joy, un gruppo oi/punk con cui ero più o meno in contatto da qualche tempo attraverso la versione cartacea di I Don't Care! zine.
Mi sarebbe piaciuto andarli a salutare, ma era assolutamente impossibile avvicinarsi al palco. Oltretutto stavano per cominciare, quindi mi trovai un posto con visibilità decente, in piedi su una finestra.
Il collettivo che occupava il posto era quello che poi sarebbe diventato buona parte del collettivo di gestione del Leoncavallo. Di loro conoscevo qualcuno, sopratutto quelli che giravano all'Università Statale. Io "studiavo" al Politecnico, ma ero più spesso in statale per questioni... beh, diciamo femminili. Quelli di Bernina, alla fine, erano quasi tutti dei Collettivi Autonomi, navigati frequentatori del bar della statale e dell'aula 101 occupata.
Mentre mi guardavo in giro e scambiavo 4 parole con le facce conosciute nei dintorni della mia finestra, i Dirty Joy completano il loro set.
Breve cambio di palco ed è il turno dei Kortatu.
Se non ricordo male, i Kortatu sono stati il primo gruppo basco a suonare a Milano.
Negli anni sono poi passati Delirium Tremens, Hertzainak, Bap, gli immensi Su Ta Gar e La Polla Records.
Per i grandi vecchi del punk basco era il momento di passaggio tra le prime canzoni in castigliano, tipo "Linea del frente", alla loro produzione in Euskera (lingua basca).
I loro dischi in Italia non arrivavano assolutamente, e le persone che andavano in vacanza a Bilbao, Donostia (San Sebastian), Vitoria portavano indietro dischi che venivano registrati e duplicati da a decine di persone. Il fatto era che i gruppi baschi, già all'epoca, vendevano decine di migliaia di copie a casa loro. E le label locali non sentivano il bisogno di sbattersi a vendere per corrispondenza poche centinaia di copie in Italia.
A prova di ciò, chiunque abbia visto un concerto di bands basche in Euskadi sa cosa voglia dire il fatto che tutti lì conoscono le loro canzoni.
Pochi anni fa ho visto suonare nella loro città i Su Ta Gar, un gruppo che faceva speed metal e che potremmo paragonare, chessò, ai Bulldozer o agli Extrema: pubblico di 10.000 persone esaltate e tutti, intendo TUTTI, dai bambini di 10 anni ai vecchietti 80enni con basco e fazzoletto al collo, cantavano i loro pezzi.
Probabilmente erano in italia per farsi un pò di vacanza, suonando giusto per fare un favore a qualche amico romano o milanese...
Bastarono i primi assalti sonori, le prime parole di Fermin dal palco del Bernina, a far esplodere il centro. Da li in poi, per un'ora, un pezzo dopo l'altro, il loro punk rock clasheggiante, intenso e aggressivo, ha fatto tremare le fondamenta del capannone. Tutti, ma proprio tutti, ballavano, pogavano, si agitavano. Pure al bar, pure in cassa, pure al cesso. Impossibile stare fermi.
Fuori, un silenzio irreale stazionava tra i capannoni abbandonati. In lontananza poche luci segnalavano le auto che passavano per Viale Stelvio. Intorno una pioggerellina vischiosa e leggera ammortizzava tutto.
Oltre il portone, l'inferno. Mille persone accalcate che ballavano e sudavano. qualche immancabile bandiera basca, pochi sboroni che sapevano un pò di castigliano a cantare un pò di pezzi, molti a improvvisare euskera inventato al momento (che tanto nessuno se ne accorge) nei cori.
Dopo un'ora di caos e divertimento generale senza, incredibilmente, nessuna rissa, le ultime canzoni, ultime sudate, ultimi cori tra le pareti muschiose.
A fine concerto, fradicio di sudore, do un'occhiata alla marea di carne sudata sotto il davanzale. Neanche una persona con la faccia annoiata. Le gambe rispondono ancora, dopo un'ora di pogo, mentre attraverso a piedi la Bovisa tornando verso casa. Via Bernina, Viale Lancetti, Piazzale Nigra, Via Bodio, Piazzale Lugano, il Cavalcavia Bacula, Viale Monte Ceneri, Viale Certosa, Piazza Firenze.
La notte è fredda, la pioggia rompe il cazzo, ma abbiamo fatto la riserva di caldo e siamo sopravvissuti alla Linea del Frente. E pure il dito in culo che è Milano a gennaio fa meno male.
C.S. Bernina - Milano - 11 gennaio 1987
Chissà perché i concerti che mi ricordo meglio sono sempre di gennaio o febbraio.
Se fossi un emokid potrei dire perché a gennaio ci sono meno giorni e quindi meno cose da ricordare, oppure perché l'inverno milanese cristallizza meglio i ricordi, o anche perché le notti di gennaio sono più buie e lunghe delle altre e ricordi meglio le cose che le hanno illuminate.
La realtà è che gennaio è un dito in culo che si agita a ricordarti che d'inverno, nella Milano del 1987, non succede un emerito cazzo.
Il Centro Sociale di Via Bernina era nato in uno dei tanti capannoni dismessi dell'epoca, in una di quelle vie dove non passa nessuno nella Bovisa pre-speculazione ediliza degli anni 90.
Probabilmente non se lo ricorda quasi nessuno, essendo stato occupato per un mese circa prima dell'intervento dei branchi cellularici di cani blu.
Era, diciamolo, un edificio di merda. Freddo siberiano + umidità perenne. Con il muschio che c'era sui muri sembrava di stare in un presepe. Solo, si sentiva l'assenza di bue & asinello, che avrebbero garantito un minimo comfort termico. La sala concerti era a forma di "L", per cui solo metà della gente riusciva a vedere i concerti. Non che ci fossero tutte 'ste serate... anche perché in un mese riesci appena ad organizzarti. Io me ne ricordo solo un paio.
Abitando a poche decine di metri da Piazza Firenze, per chi conosce la geografia milanese, sono sempre stato lontano da qualunque centro sociale all'ombra della madunina, ma per quel fottuto mese ero praticamente a casa. La Bovisa, infatti, comincia appena dopo la Ferrovia Nord, da Piazzale Lugano, a qualche centinaio di metri da casa mia.
La Bovisa, all'epoca, brulicava di capannoni dismessi. Era stato un quartiere di fabbriche, forse anche più di Lambrooklyn. Tagliata da un terrapieno ferroviario che porta a milano i treni da Torino e due ferrovie in trincea (Fs per la Stazione Garibaldi e Ferrovie Nord tra le stazioni di Bovisa e Bullona), attraversata da due vie principali (la circonvallazione di Viale Jenner e la parallela Viale Lancetti), chiusa a sud dalla stazione ferroviaria di Garibaldi e dalla dogana merci, a est dalla Via Valassina, l'Ospedale Maggiore e Via Farini, a nord dal terrapieno ferroviario che la separa dalla Bovisasca e Novate, a ovest dalla Ferrovia Nord che gli scava una trincea con il Portello, Piazza Prealpi, Villapizzone e Quarto Oggiaro.
Diversamente da altri quartieri e paesi "industriali", la Bovisa non aveva una Falk o una Breda, ma tante piccole e medie industrie. Dato l'espandersi della città, l'aumento del traffico, la sfavorevole congiuntura economica e tutti gli altri motivi classici di queste situazioni, le fabbriche chiusero, gli operai raus e tutti i capannoni rimasero vuoti ad aspettare di valere qualcosa come aree edificabili.
Mi accorgo che la digressione socio-geografica ci sta allontanando dal concerto di cui sopra, ma pazientate, ho quasi finito. Solo un'ultima battuta: secondo il piano regolatore di Milano le aree dismesse della Bovisa dovevano essere convertite in 50% edilizia residenziale, commerciale e terziario (cioè case, negozi e uffici) e 50% verde pubblico e servizi sociali (parchi, biblioteche, spazi sociali pubblici). Ora, chiunque passi per Via Lancetti, per la Bovisasca piuttosto che davanti al nuovo Politecnico e si ponga una domanda (dov'è il 50% verde e sociale?), ottiene un'ovvia e immaginabile risposta.
Io comunque la Bovisa l'avevo dietro casa. E finalmente avevo un centro sociale vicino a casa. Cazzarola, voglio fare una cosa che non ho fatto mai, provare l'emozione di andare a piedi da casa allo squat.
A gennaio, la sera, piove. Beh, magari non tutti gli anni ma, almeno quella sera, si.
La felpa dei Misfits fa il suo dovere, cioè ripararmi dalla pioggerellina gelata, fino, più o meno, a Piazzale Lugano. Da li in poi, per tutta Via Bodio e Lancetti fino all'incrocio con Via Bernina, l'umidità impone la sua tassa aprendosi la strada fino alle ossa.
Arrivo in Bernina, dove l'impianto termoautonomo, in mancanza dei succitati bove e ciucco, è costituito da un migliaio di persone stipate praticamente ovunque.
I primi a suonare sono i Dirty Joy, un gruppo oi/punk con cui ero più o meno in contatto da qualche tempo attraverso la versione cartacea di I Don't Care! zine.
Mi sarebbe piaciuto andarli a salutare, ma era assolutamente impossibile avvicinarsi al palco. Oltretutto stavano per cominciare, quindi mi trovai un posto con visibilità decente, in piedi su una finestra.
Il collettivo che occupava il posto era quello che poi sarebbe diventato buona parte del collettivo di gestione del Leoncavallo. Di loro conoscevo qualcuno, sopratutto quelli che giravano all'Università Statale. Io "studiavo" al Politecnico, ma ero più spesso in statale per questioni... beh, diciamo femminili. Quelli di Bernina, alla fine, erano quasi tutti dei Collettivi Autonomi, navigati frequentatori del bar della statale e dell'aula 101 occupata.
Mentre mi guardavo in giro e scambiavo 4 parole con le facce conosciute nei dintorni della mia finestra, i Dirty Joy completano il loro set.
Breve cambio di palco ed è il turno dei Kortatu.
Se non ricordo male, i Kortatu sono stati il primo gruppo basco a suonare a Milano.
Negli anni sono poi passati Delirium Tremens, Hertzainak, Bap, gli immensi Su Ta Gar e La Polla Records.
Per i grandi vecchi del punk basco era il momento di passaggio tra le prime canzoni in castigliano, tipo "Linea del frente", alla loro produzione in Euskera (lingua basca).
I loro dischi in Italia non arrivavano assolutamente, e le persone che andavano in vacanza a Bilbao, Donostia (San Sebastian), Vitoria portavano indietro dischi che venivano registrati e duplicati da a decine di persone. Il fatto era che i gruppi baschi, già all'epoca, vendevano decine di migliaia di copie a casa loro. E le label locali non sentivano il bisogno di sbattersi a vendere per corrispondenza poche centinaia di copie in Italia.
A prova di ciò, chiunque abbia visto un concerto di bands basche in Euskadi sa cosa voglia dire il fatto che tutti lì conoscono le loro canzoni.
Pochi anni fa ho visto suonare nella loro città i Su Ta Gar, un gruppo che faceva speed metal e che potremmo paragonare, chessò, ai Bulldozer o agli Extrema: pubblico di 10.000 persone esaltate e tutti, intendo TUTTI, dai bambini di 10 anni ai vecchietti 80enni con basco e fazzoletto al collo, cantavano i loro pezzi.
Probabilmente erano in italia per farsi un pò di vacanza, suonando giusto per fare un favore a qualche amico romano o milanese...
Bastarono i primi assalti sonori, le prime parole di Fermin dal palco del Bernina, a far esplodere il centro. Da li in poi, per un'ora, un pezzo dopo l'altro, il loro punk rock clasheggiante, intenso e aggressivo, ha fatto tremare le fondamenta del capannone. Tutti, ma proprio tutti, ballavano, pogavano, si agitavano. Pure al bar, pure in cassa, pure al cesso. Impossibile stare fermi.
Fuori, un silenzio irreale stazionava tra i capannoni abbandonati. In lontananza poche luci segnalavano le auto che passavano per Viale Stelvio. Intorno una pioggerellina vischiosa e leggera ammortizzava tutto.
Oltre il portone, l'inferno. Mille persone accalcate che ballavano e sudavano. qualche immancabile bandiera basca, pochi sboroni che sapevano un pò di castigliano a cantare un pò di pezzi, molti a improvvisare euskera inventato al momento (che tanto nessuno se ne accorge) nei cori.
Dopo un'ora di caos e divertimento generale senza, incredibilmente, nessuna rissa, le ultime canzoni, ultime sudate, ultimi cori tra le pareti muschiose.
A fine concerto, fradicio di sudore, do un'occhiata alla marea di carne sudata sotto il davanzale. Neanche una persona con la faccia annoiata. Le gambe rispondono ancora, dopo un'ora di pogo, mentre attraverso a piedi la Bovisa tornando verso casa. Via Bernina, Viale Lancetti, Piazzale Nigra, Via Bodio, Piazzale Lugano, il Cavalcavia Bacula, Viale Monte Ceneri, Viale Certosa, Piazza Firenze.
La notte è fredda, la pioggia rompe il cazzo, ma abbiamo fatto la riserva di caldo e siamo sopravvissuti alla Linea del Frente. E pure il dito in culo che è Milano a gennaio fa meno male.
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